Un giorno di pioggia a New York: un Woody Allen poco ispirato

Un giorno di pioggia a New York: un Woody Allen poco ispirato

A dispetto della critica che lo ha incensato in maniera pressoché unanime – Mereghetti gli ha assegnato, caso più unico che raro, tre stelle e mezzo – un giorno di pioggia a New York, quarantesimo film di Woody Allen, è un film tutto sommato piacevole ma non pienamente riuscito.

La trama è semplice: due giovani ragazzi si ritrovano a new York per trascorrere un weekend romantico; ma il caso, uno degli stilemi fondanti della cinematografia di Allen, qui il vero protagonista – scompaginerà i loro piani. L’amore, sembra dirci Allen, è un fuoco fatuo; ed è il fato, che tutto può, a muovere le tessere del mosaico.
La prima parte procede tediosa fra molti sbadigli, per poi riscattarsi successivamente (con qualche colpo di scena ben congegnato). Facciamo da subito la conoscenza dei due protagonisti, un verboso e auto compiaciuto Gatsby (un omaggio al personaggio letterario di Scott Fitgzerald) e la garrula e impalpabile Ashley. Tra i due, quanto a simpatia non c’è gara. Vince a mani basse il personaggio interpretato da Chalamet. E quando il destino gioca uno dei suoi tiri mancini ai danni di lei, lo spettatore non può che bearsene…
Il film, dicevamo, non brilla, per difetti evidenti di: montaggio, sceneggiatura (un po’ troppo raffazzonata), recitazione (ripugnante quella di Selena Gomez, compreso il doppiaggio). Un giorno di pioggia a new York non è dunque tra le opere migliori di Allen, ma neppure tra le peggiori; si pone a un livello mediano, così come il regista americano ci ha abituato negli ultimi anni.
D’altra parte, è un film che ha avuto una genesi alquanto travagliata. Come è noto, Allen ha adito una causa milionaria, 68 milioni di dollari, contro Amazon, poiché l’impero fondato da Jeff Bezos, sulla scorta del giustizialismo del movimento me too (segnatamente per le accuse di violenza – mai dimostrate – mosse dalla figlia adottiva Dylan Farrow) ne boicottava l’uscita. Si è infine addivenuti ad un accordo extragiudiziale tra le due parti (anche se il film è stato distribuito solo nel mercato europeo, dove Allen ha sempre riscosso maggiore successo che in Patria, e non in America).
Mentre i due attori protagonisti – Chalamet e Gomez – hanno rinnegato Allen decidendo di non promuovere il film e donando i loro compensi ad associazioni Lgbt e centri anti violenza. Altri attori di Hollywood che ad Allen devono molto (con l’eccezione di Scarlett Johansonn) si sono accodati, dichiarando che non avrebbero più lavorato col grande regista americano.
È un triste segno dei tempi, quelli del conformismo più bieco e ammorbante, per cui non basta essere assolti ripetutamente in tribunale (come nel caso di Allen); né tantomeno si è capaci di scindere il giudizio tra l’artista, ciò che realizza e la sua moralità (come per Polanski o l’ultimo premio nobel per la letteratura Handke, loro sì autori di azione abiette).
Lunga vita, quindi, a quel genio di Woody Allen (ormai viaggia verso gli 85), in barba alle prefiche moraliste che imperano oltreoceano.

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