Quando lo scorso 7 settembre sul palco del Palazzo del Cinema di Venezia è stato conferito il Leone d’Oro al Joker di Todd Philips, molti hanno storto il naso. La premiazione di un cinecomic – perché, pur nel suo stravolgere i canoni del genere, sempre di cinecomic si tratta – alla stessa kermesse che, nel corso delle sue settantasei edizioni, ha premiato Visconti, Tarkovskij, Buñuel, non può che far discutere, o quantomeno riflettere: si potrà mai sanare la dicotomia tra il grande pubblico e l’élite cinefila?
Joker è il culmine di un percorso iniziato quasi quindici anni fa con Batman Begins, il primo di Nolan. Mentre qualche anno dopo sarebbe nato Marvel Cinematic Universe, un universo di superhero movies di puro intrattenimento con il quale DC Comics, almeno a livello di incassi, non potrà mai competere, nel debutto di Christian Bale nei panni dell’uomo pipistrello si nota già una tendenza ad approfondire le motivazioni e la psicologia dei supereroi. Questa scelta, in controtendenza rispetto al diretto competitor, diede i primi frutti cominciando già qualche anno dopo: il premio Oscar al miglior attore non protagonista, assegnato postumo per l’intepretazione di Joker a Heath Ledger. Il primo (e finora unico) assegnato a un supercattivo.
Ambientato nella Gotham City degli anni ’80 – più precisamente, nel 1981: in un’inquadratura, si vede che in un cinema danno Blow Out, regia di Brian De Palma uscito proprio in quell’anno – Joker è molto più di un film sulla nascita della più celebre nemesi di Batman. È un film sulla salute mentale, sull’emarginazione civile, sulle disuguaglianze.
Ho sempre pensato alla mia vita come una tragedia. Adesso vedo che è una commedia.
Arthur Peck (Joaquin Phoenix) è un individuo altamente disturbato che vive con la madre Penny (Frances Conroy) alla periferia di Gotham. Arthur si guadagna da vivere facendo il clown, in attesa di fare il grande salto: diventare un comico famoso come il suo idolo, Murray Franklin (Robert De Niro).
Todd Philips sceglie accuratamente di dipingere sullo sfondo di una Gotham dilaniata dalle disuguaglianze sociali un personaggio le cui motivazioni sono assolutamente comprensibili ma non condivisibili: capiamo perché Arthur/Joker è spinto dalle circostanze ad agire con una brutalità inaudita, assunto a emblema della rivolta ma alla fine ci fa soltanto tanta, tanta pena. Proprio come Gwynplaine, il protagonista dell’Uomo che ride di Victor Hugo, cui è dichiaratamente ispirato, un pagliaccio sfigurato in volto da un’orrenda cicatrice che lo costringe a sorridere sempre, Arthur si sforza e si forza a sorridere, nonostante la vita non gli riservi altro che pugni nello stomaco. Un Joker ben lontano da quello di Ledger, da cui si finiva per essere, un po’ perversamente, attratti. E assolutamente rivoluzionaria è anche la sua collocazione nella società: da emblema dell’alt-right nell’immaginario collettivo, Joker finisce per diventare emblema del populismo di segno opposto, catalizzatore dell’ invidia sociale di tutti coloro che si sentono rappresentati da quel “Kill the rich” che a più riprese diventa slogan contro il magnate e candidato sindaco Thomas Wayne, etichettato come fascista dalle periferie di Gotham, come si legge su un cartello durante l’ennesima protesta.
La cosa peggiore della malattia mentale è che tutti si aspettano che tu ti comporti come se non l’avessi.
Contrariamente all’idea che ci si può fare, Arthur è consapevole di avere un problema, anzi, sembra proprio cercare attivamente di migliorare la propria situazione: parla con cadenza regolare con un assistente sociale, assiste a spettacoli di cabaret durante i quali prende appunti. Un uomo dal passato terribile – scopriremo in seguito che è stato vittima di abusi da parte del compagno della madre – ma che non vorrebbe cedere a quello che parrebbe essere il suo inevitabile destino e che, per sopportare il peso dell’esistenza, si rifugia nelle sue allucinazioni.
Il dualismo verità-finzione è una fortunatissima scelta registica che permea tutto il film. Arthur fantastica di essere ospite al Live with Murray Franklin e di ricevere l’apprezzamento del suo idolo, nella sua mente la figura paterna che non ha mai avuto; l’arco narrativo di Sophie Dumond (Zazie Beetz) si svolge interamente nella sua testa, immaginandola tra il pubblico della sua esibizione di cabaret e poi al suo fianco durante il ricovero della madre; quest’ultima, nasconde ad Arthur che è figlio di Thomas Wayne, salvo poi scoprirsi che anche questo non è vero e che pure lei soffriva di problemi psichiatrici; l’ossessiva risata di Arthur, che apprendiamo essere patologica ma che, coincidenza, è estrema esternazione di quel “don’t forget to smile”, mantra con la quale la madre lo ha cresciuto e che, ironia della sorte, campeggia sulle scale dell’edificio in cui lavora. Una serratissima partita a tennis tra reale e immaginario che, inevitabilmente, ci porta a interrogarci sul finale: quanto di quello che ci è stato mostrato è accaduto realmente?
Mia mamma mi diceva sempre di sorridere e di mettere una faccia felice. Mi diceva che ho uno scopo: portare risate e gioia nel mondo.
Intelligente è l’utilizzo delle citazioni cinematografiche. La Gotham di Phillips si specchia nella New York di Scorsese, a partire dalla color correction, granulosa e sui toni di ocra. Arthur/Joker è un novello Travis Bickle, protagonista di Taxi Driver, paragone visivamente condensato allo spettatore nel gesto delle dita a pistola, che ricorre a più riprese durante il film e che, emblematicamente, è introdotto da Sophie, in uno dei rarissimi contatti umani positivi che accadono al di fuori della mente di Arthur. Entrambi sociopatici e al di fuori della società in cui vivono – che poi è la stessa, perché il mondo di Taxi Driver e quello di Joker sono distanti non più di otto anni tra loro – Arthur e Travis cercano una rivalsa sociale che, nella loro visione del mondo, si può conseguire soltanto con la violenza.
Nonostante Joaquin Phoenix sia onnipresente – e vista la sua incredibile performance attoriale, non ci si può aspettare altrimenti – Phillips trova la maniera di caratterizzare Murray Franklin recuperando un altro personaggio di Scorsese, anch’esso interpretato da De Niro: Rupert Pupkin, protagonista di The King of Comedy (in Italia noto come Re per una notte). La storia di Rupert è la storia di Arthur: anch’egli aspirante comico, sociopatico e ossessionato dal suo idolo, tenterà di ottenere la sua notte di gloria tramite il suo rapimento.
Certo, rappresentare sul grande schermo un disadattato che ottiene con estrema facilità una pistola e, facendosi giustizia da solo, diventa simbolo degli oppressi è sempre rischioso, e in America forse anche più che in Europa. E infatti non sono mancate le polemiche: a quanto pare ci sarebbe chi addirittura, tra i membri dell’Academy, si è rifiutato di vederlo, dando sfoggio di scarsissima professionalità.
Nonostante l’indiscutibile successo, Joker potrebbe rimanere un film a sé stante, un meraviglioso memento di come non sia necessario scindere il buon cinema dalla pop culture. Prima del successo planetario, Phillips aveva smorzato gli animi, sostenendo che il film era stato proposto alla Warner Bros. come unico e che non erano previsti sequel. Più recentemente, Phoenix ha aperto alla possibilità di vestire nuovamente i panni di Arthur Peck, magari proprio a fianco del prossimo Batman, Robert Pattinson.
Insomma, Joker è un gran film. Con una regia di esperienza, che riprende le tinte fosche dei predecessori, riproponendole con originalità e un citazionismo cinematografico mai fine a se stesso e al servizio dello storytelling, Phillips ha mostrato di essere in grado di dare nuova linfa a un mondo che sembrava aver raggiunto l’apice con la trilogia di Nolan. La sua vittoria a Venezia, riconoscimento che per tradizione tende a premiare film di nicchia, ha stupito in positivo, tra gli altri, anche Gianni Canova, uno dei massimi esperti in Italia. Un cinema che parla a tutti ma che soddisfa per qualità tecnica anche la critica è possibile.
La performance di Joaquin Phoenix è monstre, e anche chi sul film ha speso parole negative non può non ammetterlo. Dopo aver già dato prova di essere tra i migliori della sua generazione in diversi film – su tutti, anche per attinenza di metodo, citiamo The Master di Paul Thomas Anderson e in quel folle mockumentary sulla sua vita che è I’m Still Here – Phoenix è riuscito, anche grazie a una sceneggiatura sapiente e misurata, a mettere in discussione il primato di re dei supervillain, finora occupato – pure meritatamente – da Heath Ledger. Con il pretesto di caratterizzare uno dei più noti supercattivi, Phoenix riesce a scavare nelle profondità della miseria umana e ci fa empatizzare – e non simpatizzare, attenzione – con un personaggio veramente tragico.
Joker ci mostra che non tutti siamo il Joker, ma che chiunque, sotto sotto, potrebbe esserlo.