Gianrico Carofiglio, in questo libro che scandaglia un’indagine particolarmente complicata, racconta un’estate che tarda ad arrivare dal punto di vista meteorologico, e agghiacciante da ogni altro punto di vista immaginabile nella vita di un maresciallo dei carabinieri impegnato a combattere la criminalità organizzata. Siamo nel 1992, anno che inizia a segnare la fine per la mafia corleonese. È l’estate delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. È l’estate della mafia padrona. Questo è un libro duro, drammatico, incredibilmente scorrevole nonostante la pesantezza degli episodi che racconta. Un linguaggio sempre perfettamente in equilibrio tra forma e sostanza, saltella dal registro tecnico a quello “di strada” con una naturalezza incredibile. Ci mette dinanzi a quei ragionamenti illogici che paiono rompicapo da risolvere, che non capiamo, non riusciamo a dargli una vera e propria logica. E infine ci accorgiamo, come il protagonista stesso dice nel libro, che il nostro costante bisogno di razionalità ci fa perdere di vista le caratteristiche più comuni di tanti delitti: l’assenza di senso, la vertiginosa, indecifrabile banalità. Noi lettori veniamo immersi in un’indagine a tutto tondo: il figlio di un capo clan, conosciuto come Grimaldi, viene rapito e ritrovato cadavere, con l’unica colpa di avere un padre criminale. Il maresciallo Pietro Fenoglio viene affidato al caso e, a seguito di alcune scoperte, si rende conto che è stato raggiunto un punto di non ritorno. Si affezionerà particolarmente alla vicenda, che provocherà indignazione sia in cittadini che in delinquenti: l’innocenza e la purezza della vittima unirà tutti in un comune senso morale. Uno dei boss ritenuto da tutti responsabile dell’accaduto, il signor Lopez, decide di pentirsi e collaborare con la giustizia. L’uomo, identificato dapprima come compagno del capo clan e a seguito rivale del padre del bambino, si autoaccusa e si macchia apertamente di tutto, anche di reati gravissimi, ma non del rapimento in questione, lo ripudia, lo sdegna in modo assoluto, nonostante i suoi trascorsi malavitosi. Nessuno gli crede, Fenoglio sì. Era chiaro che l’ipotesi investigativa più avvalorata fosse quella di una guerra interna allo stesso clan, una ribellione al capo. Ma non tutto quello che sembra corrisponde al vero, il nostro maresciallo ne è consapevole, ed è anche un po’ il suo istinto a spingerlo verso tale convinzione. Inizierà dunque, con contraddistinta tenacia, a scavare a fondo da solo, portando avanti un’indagine segreta addentrandosi in quella giungla maledettamente intricata che è il mondo grigio della criminalità organizzata.
È difficile etichettare questo libro: una cronaca verosimile scritta nella forma di un giallo, in cui il susseguirsi degli avvenimenti ci fa rimanere col fiato sospeso. Ci stupiamo, ma non troppo, dinanzi a questa narrativa, a tratti romanzata, a tratti meticolosa come un saggio scientifico, che rimane comunque incredibilmente vera. Troviamo, infatti, rapide alternanze tra il linguaggio fluido della narrazione e dei dialoghi, e interi verbali e interrogatori scritti con una lingua che Calvino chiama “antilingua”: la lingua di avvocati, funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali. Una lingua che non deve dire una parola di troppo e deve essere giusta, incasellata entro limiti ben definiti. Un “terrore semantico”, come lo denomina Calvino, la fuga da ogni vocabolo che abbia di per sé un significato, lontano dalla concretezza della vita. L’italiano di chi non sa dire “ho fatto”, ma deve dire “ho effettuato”; che usa “recarsi” invece che “andare”. Una forbita lingua da pattumiera, satura di formule burocratiche e nemica della chiarezza. Carofiglio la conosce bene questa lingua non-lingua, data la sua precedente esperienza come magistrato e sostituto procuratore nell’antimafia, e dunque trova semplice e appropriato offrire ai suoi lettori un quadro più simile possibile alla realtà, in modo chiaro, rappresentando le scene come se fossero prodotti audiovisivi, creandole perfettamente dinanzi ai nostri occhi. Tocchiamo con mano il mondo della criminalità organizzata, con tutte le sue strutture gerarchiche, i suoi giuramenti, i suoi “avanzamenti di carriera”, i suoi codici e la sua giustizia interna. Il libro, oltre che raccontare la storia di un sequestro finito male, del pentimento e delle indagini; insegna. Sono molti gli articoli che vengono citati e spiegati e che aiutano ad amplificare la perfetta conoscenza dell’ambiente narrato nel libro, di entrare meglio nella scena e comprenderla da tutti gli aspetti giuridico-istituzionali che ne conseguono. Alcuni di questi sono, ad esempio, l’articolo 41 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza, gli articoli 630, 416 bis, 575, 629 del codice penale o l’articolo 247 del codice di procedura penale. Tutti articoli inerenti a temi quali la perquisizione, il sequestro di persona a scopo di estorsione, le associazioni di tipo mafioso, l’omicidio e così via. Il lettore, oltre a seguire attentamente le vicende, ha anche la possibilità di avere un rimbalzo alla vita quotidiana e reale, guardando cosa realmente accade nel corpo poliziesco e giudiziario una volta a contatto con circostanze simili, ha la possibilità di avere gli elementi per investigare insieme ai protagonisti, di porsi dei quesiti, avere delle idee personali. Idee che si scaraventano dolorosamente nella disillusione, una volta scoperta la verità sul sequestro – omicidio del piccolo Grimaldi. Carofiglio utilizza i dialoghi dei personaggi per aprirci le porte ad un ampio ventaglio di tematiche. Fenoglio, più o meno nelle prime pagine del libro, parla di “callo” o “anestesia”, ovvero un meccanismo degli “sbirri” per cui gli orrori della vita vanno ridotti a pratiche e fascicoli. “Il meccanismo per cui, mentre ti raccontano di un poveraccio torturato, massacrato di botte, ammazzato come un cane e bruciato, magari ancora vivo, tu pensi alle indagini da fare, ai procedimenti da riaprire, ai riscontri da trovare. È che diventi pazzo, se non hai quel sistema di sicurezza molto ben funzionante”. Un meccanismo di sicurezza seguito meticolosamente per specifici fini, un meccanismo che consente a chi è impegnato in un compito simile, di non porsi domande sulla corretta linea di demarcazione che separa giusto e ingiusto, legge e delitto, una linea così labile da non riuscire ad essere compresa neanche da chi la legge, si presuppone, la rispetti e la renda rispettabile. Un uomo ricoperto da stelle e medaglie al valore è allontanato da qualsiasi sospetto. È un meccanismo, questo, che permette a uomini senza scrupoli di agire da “cattivi” direttamente dal campo dei “buoni”. È un carabiniere, il colpevole dell’indagine Estate Fredda. Colpevole di questo e di tutta una serie di delitti precedentemente commessi. Il maresciallo Savicchio, nome del personaggio, rappresenta quella parte che si presuppone sia dalla parte della giustizia, in un’ipotetica divisione tra bene e male. Chi combatte contro la criminalità organizzata, chi giura solennemente di rispettare la legge e farla rispettare, dovrebbe essere “buono”. Eppure, all’interno di questo nucleo dei buoni, non si può certo star tranquilli. E questo libro, minuzioso e scrupoloso, pone davanti agli occhi del lettore la cruda realtà, difficile da ingurgitare, che porta a chiedersi di chi, un civile essere umano, debba fidarsi.
Un altro punto su cui soffermarsi è proprio il maresciallo protagonista: Pietro Fenoglio. Un uomo misterioso, intelligente, con un’ottima e fluida conoscenza della lingua italiana e dei codici su cui ha giurato solennemente. Un uomo avvolto da ombre dalle luci diverse, costantemente perseguitato dal fantasma di Serena, la sua ex moglie. Ricordi che nei momenti meno opportuni gli attanagliano l’esistenza, compaiono dinanzi alla sua vita e lo portano in un turbinio di immagini che fanno percepire una chiara disperazione. Tutte immagini che alimentano quello spettro d’aura negativa che potrebbe facilmente essere percepito ad una prima lettura analitica del personaggio. Ad un’analisi più profonda, invece, ci si rende conto che si tratta di un uomo spinto da forti passioni, di cui lui stesso ne è ignaro. Ad un certo punto si chiede perché scelse di fare questo mestiere, quello del carabiniere, come se lui stesso dovesse convincersi a trovare un motivo per proseguire. La sua anima in realtà lo sa, brucia di volontà di giustizia, brucia di sete della verità. Le sue riflessioni filosofiche, e anche scientifiche, brulicano da ogni discorso. Si chiede spesso quale sia il legame che intercorre tra etica e giustizia giuridica. Cosa esattamente, di quello che è giusto da un punto di vista giuridico, è giusto anche da un punto di vista etico? Una ragazza che si ritrova a deporre in tribunale contro l’amica che vendeva pezzetti di hashish alle feste, è qualcosa che da un punto di vista giuridico è inappuntabile. Il suo era chiaramente un comportamento scorretto e illegale, ma a Fenoglio quella costrizione giuridica che mette in guerra amici che abitano lo stesso territorio affettivo, era parsa una cosa “brutta”. Fenoglio è un uomo unico nel suo genere, giusto, onesto, sincero, con sani principi, un maresciallo sabaudo di vecchio stampo, ancora convinto che la legge sia uguale per tutti e che, catapultato nella cocciutaggine meridionale, si ritrova a fronteggiare il modo in cui la legge sia comunemente intesa tra coloro che la esercitano e la amministrano. Per Carofiglio non è ammissibile negligenza, superficialità e assenza di rigore tra gli operatori di giustizia, allo stesso modo in cui non lo è tra medici o psicologi. La giustizia, afferma l’autore, non può esistere se non sono essi stessi giusti coloro che la giustizia la esercitano.
La verità ha un sapore amaro, suscita sgomento e costernazione, ma mai rassegnazione:
<<Non c’è speranza >> – mormorò Serena, <<No>>, – rispose Fenoglio. <<Non è vero>>.
E sono uomini come questi, che ogni giorno operano con onestà per restituire la speranza, e riabilitare la giustizia, così come facevano Falcone e Borsellino; gli uomini ai quali il libro rende onore. Uomini fedeli a questi principi elementari, fortunatamente esistono. Carofiglio lo sa, e lo testimonia a tutti noi. E Fenoglio, un carabiniere appassionato di musica classica, buona letteratura, dedito al lavoro e ossessionato dal rispetto delle regole, risulta il rappresentante di questa fetta, ancora esistente, di uomini non corrotti, pronti a tutto pur di dipanare una matassa tanto grande da non avere nessuna certezza di riuscita.
«Fenoglio sapeva benissimo che quel caso lo avrebbe ossessionato fino a quando non fossero riusciti a risolverlo. Il problema era: non esisteva nessuna certezza che sarebbero riusciti a risolverlo. Non esiste mai».