La settimana scorsa è uscito nelle sale italiane “Alita, angelo della battaglia”: trasposizione diretta da Robert Rodriguez dell manga degli anni novanta Gunnm.
Nel mondo di Alita, la medicina è così avanzata che corpi umani e meccanici si fondono con continuità quasi perfetta. È un futuro dove le macchine non hanno sostituito il lavoro umano; si può quasi dire che sia successo l’opposto. Le protesi meccaniche sono infatti decisamente comuni – vediamo l’operaio di fabbrica con un braccio-pinza, o l’infermiera con la mano sostituita da un set di delicati strumenti chirurgici. Già dal primo momento non è chiaro se queste sostituzioni siano dettate dalla necessità – come dopo un incidente – o dalla funzione, e dalla praticità nello svolgere il lavoro. La maggior parte della popolazione terrestre vive nella città di Ferro, enorme baraccopoli industriale all’ombra della città sospesa di Salem (dove risiede l’elité, e dove solo i migliori possono aspirare, forse un giorno, a salire).
In questo contesto seguiamo le vicende di Alita, una cyborg raccolta tra i rifiuti da un chirurgo che la ricostruisce. Da qui la trama può iniziare, seguendo le vicende della ragazzina a cavallo tra la ricerca dei suoi ricordi e di un’identità dimenticata e l’esplorazione del nuovo ambiente. Alita è un film science fiction, con risvolti d’azione, un pizzico di body-horror e una spruzzata di storia di formazione.
Rodriguez ci porta in una corsa di due ore e venti in cui si alternano scene d’azione mozzafiato all’estetica allo stesso tempo affascinante e aliena dei corpi meccanici. Tramite questi stessi corpi inumani, ci mostra con tranquillità spezzoni di una violenza incredibile. Se non si trattasse di corpi meccanici, saremmo nel pieno dello splatter: ma molte delle scene cruente coinvolgono cyborg che vengono rotti, e in assenza di organi e viscere, non è sempre chiara l’entità del danno. Dopotutto, se tutto è sostituibile tranne il cervello, un cyborg può essere anche tagliato a metà, privato delle braccia o derubato del motore.
Con queste premesse viene impacchettata una storia che alla prima occhiata può sembrare, dopotutto, abbastanza standard. Alita lascia progressivamente il clichè della ragazzina ingenua e cresce fino a diventare autosufficiente. Vive una storia d’amore. Trova un obbiettivo, e degli antagonisti su cui misurarsi. Si profila all’orizzonte la possibilità di un sequel. Ma il vero valore del film non sta nella trama principale, sta nei sottotesti.
Per certi versi, si tratta di una pellicola che si nutre di paradossi. Alita è un personaggio con picchi di ingenuità e dolcezza infinita: letteralmente darebbe il cuore per chi ama, e allo stesso tempo mostra una competenza euforica e spietata quando distrugge i suoi avversari. Il suo interesse romantico, Hugo, è un condensato di buoni sentimenti e desiderio di riscatto, e allo stesso tempo si guadagna da vivere assalendo cyborg nella notte. Li smonta per rivendere i pezzi più rari, lasciandosi dietro una scia di corpi senza braccia o gambe: un equivalente del trafficante d’organi. Lo sport nazionale è il motorball: l’ibrido meccanico tra la pallamano e le corse di motociclette. Soltanto che qui non ci sono motociclette, solo giocatori cyborg appositamente costruiti e modificati per distruggere gli avversari o correre più veloce di loro.
In questo tripudio robotico non c’è spazio per domande di etica: il film non si chiede se gli energumeni ipersviluppati con il look di vecchi modem siano o no esseri umani. Non si chiede se sia lecito sostituire un braccio, una gamba o l’intero corpo per qualcosa con maggiore funzione; battute vengono fatte sui “corpi freddi” di metallo, ma rimangono scherzi vani, da liquidare con un gesto della mano.
L’estetica dei corpi di metallo, a volte delicati e letali come quello di Alita, o rozzi e ingombranti come per gli antagonisti o i giocatori di motorball, è così pervasiva che sarebbe stupido fare una domanda del genere. Si tratta di un paradiso transumanista, dove superare le condizioni limitanti della propria biologia non è impossibile. Ma vicino al paradiso abbiamo lo stesso inferno: di nuovo, il film si nutre di paradossi. Perché ovviamente sono sempre cervelli umani dietro questi corpi compositi, mossi da passioni e limiti squisitamente familiari. Avarizia, egoismo, lussuria, fama di potere, edonismo e ogni sorta di torbida passione di cui neanche il cast dei protagonisti è esente.
Sullo sfondo, ma sempre presente, la città volante di Salem: la differenza tra ricchi e poveri esplicitata da una diversa altitudine. Tutti quelli della città di ferro lavorano per Salem, il paradiso dei pochi ricchi. E Salem, come ci viene mostrato, corrompe col denaro o con la promessa di un futuro migliore tutti quelli che vivono nella città di Ferro. Un canto di sirena al quale è difficile sottrarsi, ma che finisce per stritolare tutti come gli ingranaggi di una macchina. Non serve una carriera accademica per capire che si tratta di una critica alla società – stilizzata, certo – ma pur sempre applicabile. Dopotutto, il motorball svolge la stessa funzione di ogni sport di massa, come il calcio: distrae e focalizza le attenzioni.
Nello scenario meccanico, olioso e alla fine deludente, l’unica a salvarsi è forse proprio Alita. La sua differenza è testimoniata dai suoi occhi grandi, e dal suo non essere, a detta sua, “completamente umana“. Ma nell’ottica transumanista del film, questa definizione sembra un po’ inesatta. Alita può essere l’eroina non tanto perché diversa dagli altri, ma perché estranea al sistema di valori in atto nella baraccopoli. Il suo nemico non sono i cyborg depravati, quanto la società che li genera. L’antagonista finale del film è il sistema che macina corpi umani, derubandoli in primis della dignità, e in secondo luogo dei sogni, della vita, degli organi. La speranza è una ragazzina dagli occhi molto grandi.
Il film non è esente da problemi; l’arco narrativo è probabilmente troppo esteso, conseguenza, a mio parere, della necessità di trasporre quanti più elementi possibili dell’originale cartaceo su pellicola. Tuttavia, bisogna dar credito a Rodriguez di essersi cimentato in un’opera probabilmente colossale, inserendo tutti gli ingredienti giusti. Poco importa se poi sarebbe stato meglio alterare le dosi, calibrare diversamente alcuni elementi e ometterne altri. Il risultato si fa guardare, intrattiene, e lascia qualcosa su cui riflettere a chi osserva con occhio critico e non si fa intimorire da qualche difetto di trasposizione.
In ultima analisi, era da un po’ che non applaudivo a fine proiezione.