Folklore: il fantasy vissuto dalle persone

Folklore: il fantasy vissuto dalle persone

Vi è un passaggio particolarmente significativo, verso metà del romanzo Jonathan Strange & Mr. Norrell di Susanna Clarke, che rappresenta magistralmente uno dei punti cardine, oggigiorno per buona parte tristemente trascurato, della narrativa fantastica:

“Quando qualcuno canta, può valere come regola generale che nessuno gli badi tranne i suoi simili. Ciò è vero anche se il canto è di una bellezza insuperabile: è possibile che altri esseri umani siano rapiti da tanta arte, ma il resto della creazione rimane del tutto indifferente. Forse un gatto o un cane potranno guardare un uomo che canta, forse il suo cavallo, ammesso che sia una bestia di eccezionale intelligenza, potrà smettere di brucare l’erba, ma niente di più. Ora però se a cantare era un essere fatato, il mondo intero lo ascoltava. Stephen sentì le nuvole fermarsi nel cielo, sentì le colline addormentate destarsi e mormorare, sentì danzare le gelide nebbie e comprese per la prima volta che il mondo non era affatto muto, ma semplicemente in attesa di qualcuno che parlasse una lingua comprensibile. Nella canzone dell’essere fatato la terra aveva riconosciuto i nomi con i quali chiamava sé stessa.”

Rifacendosi alla tradizione folkloristica della sua patria, la Gran Bretagna, tradizione a sua volta radicata nel panteismo pagano dell’epoca pre-cristiana, nella mitologia norrena dell’Edda e in vari aspetti della cultura germanica e celtica, la Clarke ha compreso che il senso più puro di magia e stupore davanti agli aspetti sconosciuti del mondo non deriva dall’utilizzo di dettagliate descrizioni di un mondo alieno, bensì dalla capacità di suscitare la sensazione romantica del ‘sublime’ nei suoi lettori, anche di fronte a concetti mondani. La ‘magia’ non è un insieme di regole, di formule, di parole in lingue sconosciute o create sul momento, per soggiogare alla, limitata, comprensione umana i poteri della natura; la magia è qualcosa di misterioso, di ignoto, di estraneo, quasi spaventoso, e pervade ogni strato del mondo, dal conoscibile all’inconoscibile. Howard P. Lovecraft fu uno dei più celebri autori a comprendere al suo tempo l’impatto maggiore di descrizioni cariche emotivamente e immediatamente percepibili, piuttosto che lunghe dettagliate esposizioni di forme estranee che, una volta spiegate, sarebbero divenute immediatamente familiari, perdendo così la loro meraviglia.

Prima di Lovecraft, e fra le sue più significative ispirazioni, troviamo Lord Dunsany: punto di riferimento per molti autori moderni come, – oltre alla già menzionata Clarke, Gaiman, Moorcock, Mieville, Vance, Mirrless, C.S. Lewis, anche Guillermo del Toro e Tolkien. Lord Dunsany era l’esempio di scrittore di storie fantastiche che si svegliava la mattina e metteva su carta i suoi sogni. Letteralmente. Chi provi ad entrare nella vasta produzione dell’autore noterà che a storie e romanzi più lunghi si alternano novelle e frammenti di una mitologia personale, a sua volta influenzata dal folklore, ma visivamente e immaginativamente inarrivabile. In Time and the Gods egli introduce l’idea che il tempo sia un essere senza età al servizio di giovani déi che, addormentati in recessi nascosti della terra, dormono sogni di marmo, da cui scaturiscono forme di pinnacoli e cupole. In The South Wind, l’autore immagina che il firmamento sia una scacchiera composta da granelli di polvere su cui gli déi vengono mossi come pedine dal Fato e dal Caso, e in The Dreams of the Prophet questa partita termina per portare alla fine del mondo, la fine “di tutto, delle speranze e delle lacrime, i rimpianti, i desideri e le mestizie, ciò per cui gli uomini hanno pianto e ciò che non ricordavano, i regni e i piccoli giardini e il mare, e i mondi e le lune e i soli; e ciò che rimase fu il nulla, senza né colore né suono.” Ma ecco che immediatamente Fato e Caso ricominciano la loro partita, così che il mondo nasca nuovamente e ciclicamente tutto avvenga così come già è stato, poiché Fato e Caso giocano sempre le stesse mosse, per tutta l’eternità.

Il fantasy di Dunsany ricerca il bizzarro e l’incomprensibile, ciò che va oltre l’umano ma è, proprio per questo, quintessenza dell’umano. È la tradizione ellenica dell’osservare il mondo circostante e, stupiti dai più disparati aspetti della natura, anche ordinari e inconseguenti come una folata di vento o il cambio di colore degli alberi in autunno, trovare una spiegazione che stabilisca oltre l’essere umano il senso del creato. Parallelamente, anche autori come Lewis Carroll, Urushibara Yuki e Mervyn Peake hanno saputo sfruttare questo controllo letterario dell’assurdo nelle loro opere: Alice in Wonderland, Mushishi e il Gormenghast si focalizzano sul ruolo che i protagonisti hanno all’interno delle strutture sociali dei rispettivi mondi – il cosiddetto Fantasy di maniera – ma che, pur mancando di una elaborata e personale mitologia, riescono a rendere il senso del fantastico attraverso personaggi e circostanze inerentemente bizzarri, talvolta allegorici ed in un certo qual modo verisimili riflessi della realtà. I topos della letteratura fantastica ci hanno insegnato ad accettare creature quali elfi, nani, orchi, draghi, goblin e fate come estensioni dell’umano, così inquadrate all’interno di cornici fatte di dissertazioni, analisi, storie e ruoli imposti da aver perso ogni senso di meraviglia ed estraneità per il lettore; per questo è importante avere ancora autori in grado di raccontare, nelle parole di George Byron, una “realtà più strana della finzione.”

Allo stesso modo, un esempio recente ed estremamente popolare di questo approccio può essere ritrovato nella saga polacca dei Wiedźmin, meglio nota col titolo internazionale The Witcher. Fra molteplici libri scritti da Andrzej Sapkowski e diversi videogiochi sviluppati dalla casa CD Project RED, l’universo dei Witcher è il culmine di una narrativa fantastica sviluppata in un mondo ampio e ricco di personaggi, solitamente più interessata a questi ultimi piuttosto che alle minuziose descrizioni dei suoi mostri e abitanti non-umani. Elfi, nani, spettri, ghoul, basilischi, sirene, non-morti, spriggan, c’è una ricca varietà di creature prese in prestito dal folklore esteuropeo, eppure non è la loro esistenza ad essere il centro nevralgico delle avventure, quanto il modo in cui le vicende umane si snodano e, talvolta, si intersecano con il sovrannaturale. Ci sono esseri che superano la comprensione immediata dei protagonisti, eppure non è l’esistenza del diavolo a interessarci, quanto le conseguenze del patto che Faust ha stipulato con esso. Gli spettri infestano le lande, ma non è il loro aspetto aberrante a colpirci, quanto il rancore dei defunti – traditi, assassinati o dipartiti violentemente – che li ha generati.

Con le parole di Wilkie Collins, The Witcher ha capito che “l’effetto prodotto dalla narrazione di determinati eventi dipende essenzialmente non già dagli eventi stessi, ma dall’interesse umano che direttamente li investe. È possibile che in un romanzo si riesca a descrivere bene dei personaggi senza raccontare una storia; ma non è possibile raccontar bene una storia senza descrivere dei personaggi: poiché la loro esistenza, la loro natura di realtà riconoscibili, è la sola condizione necessaria perché una storia possa essere davvero raccontata. L’unica narrativa che può sperare di far breccia nell’attenzione dei lettori è quella narrativa che parla loro di uomini e di donne – per la ragione perfettamente evidente che essi stessi, i lettori, sono uomini e donne.”

Il terzo capitolo del videogioco The Witcher si intitola ‘Wild Hunt’, riferimento all’omonimo mito degli spiriti cacciatori e principali antagonisti del gioco, ma anche questi, seppur temuti, sono riconosciuti come un aspetto naturale del mondo da parte della popolazione ordinaria. L’eclatante viene normalizzato al suo estremo, così che la sospensione dell’incredulità acquisisca la nozione di mostri informi, alti quanto case, rendendola ordinaria, spostando l’interesse verso aspetti più cogenti: che cosa significa quel mostro nell’ottica di chi lo osserva? Che conseguenze ha avuto la sua esistenza nelle circostanze personali di chi si è imbattuto in esso? In che modo questo è un simbolo della cultura in cui è inserito?
Così come gli antichi – basti pensare alla mitologia greca – assegnavano a fenomeni naturali e comportamenti umani un corrispettivo sovrannaturale, così nel mondo dei Witcher il fantastico esiste come riflesso ed estensione degli esseri umani, manifestazione dei loro rimpianti, dei loro desideri, si configura come antinomia, risponde alla loro chiamata e genera esiti tangibili, descrivibili anche, ma fuori dal pieno controllo della logica e della scienza umana: ne è prova come la maggior parte delle volte che qualcuno tenti di soggiogare una di queste creature l’esito sia più spesso che no una impietosa fine per il malcapitato, un contrappasso per la sua hybris.

Ulteriore prova è anche il ruolo stesso che i Witcher occupano all’interno del loro mondo, cacciatori di mostri su commissione, ma osservatori neutrali delle vicende umane e naturali, quando non è richiesto non si mescolano col mondo delle bestie, si tengono in disparte per permettere all’ecosistema di sostenersi e evolversi da solo. Come la Clarke, citata a inizio articolo, sono consapevoli che il mondo possiede un proprio linguaggio mediante il quale comunica con i suoi abitanti, ed è importante preservarlo intatto poiché è qualcosa di troppo grande ed estraneo alle loro capacità (sovra)umane. La magia in questo tipo di fantasy non è più vissuta come conveniente, utile o attraente, è qualcosa di terrificante e da cui tenersi a debita distanza, affascina ma rende anche consapevoli dei nostri limiti e, quasi come nelle fiabe dei Grimm o di Andersen, non devono necessariamente essere lezioni morali, ma un monito verso un mondo che forse è più incredibile di quanto possiamo immaginare.

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