Di recente Netflix ha pubblicato l’ultima trasposizione cinematografica del “Libro della Giungla” di Kipling. Il film si chiama “Mowgli – Il figlio della giungla”, è stato diretto da Andy Serkis, e ha tutto quello che si potrebbe desiderare dal filone di adattamenti dell’originale: un grosso Shere Khan incazzato più che mai, amichevoli divergenze di opinione tra Baghera e Balù a colpi di unghiate, e lupi in CGI come se piovessero.
La pellicola è migliore di altre trasposizioni (o quantomeno non è imbarazzante come la versione della Disney del 2016). In generale non so dire se si tratti di un buon film: ci sono sicuramente dei bei momenti. La cosa che più ho apprezzato, però, è come si presti a essere vista come un’allegoria sul significato della legge.
Sì, discorsi sulla natura della legge non sono la prima cosa che ci si aspetta guardando la classica storia del ragazzino cresciuto nella giungla selvaggia. Eppure, il film ne è permeato.
Come in tutte le trasposizioni del libro, Mowgli viene adottato per pietà dal branco di lupi guidato dal capo Akela. Questa decisione si scontra con il desiderio (che sfocia in feticismo borderline) di Shere Khan di “bagnarsi nel suo sangue”. Sarebbe molto semplice per i lupi abbandonare il pupo alla brama della tigre, ma non lo fanno – nonostante le minacce – perché la decisione di Akela è irrevocabile.
Già da queste prime scene si può leggere una prima allegoria sulla legge, che tutela chi non può difendersi dalla forza bruta e imprevedibile dei malintenzionati. Dopotutto, il film non spreca occasione per mostrare quanto la tigre sia fisicamente imponente e quanto potrebbe abbattere, singolarmente, ognuno dei personaggi. Ma Shere Khan è costretto a indietreggiare di fronte all’unità del branco di lupi, perché non può affrontarli tutti contemporaneamente: et voilà, ecco spiegata la naturale tendenza dell’uomo a creare delle società.
Il parallelo si arricchisce mentre il film procede. Mentre Mowgli cresce gli vengono insegnate le “leggi” della giungla, che si basano sulla dicotomia del “cacciare o essere cacciati” e sul non infastidire gli umani e il loro bestiame – per evitare ritorsioni e spedizioni punitive. In pieno contrasto con questa infarinatura di codice penale, ci viene presentato il popolo delle scimmie – che vive senza seguire alcuna regola. Immaginate di vedere dieci minuti di inquadrature ansiogene e poco illuminate, dove scimmie picchiano, mordono, strillano verso e si approfittano di altre scimmie in un mucchio selvaggio che ricorda “le 120 giornate di Sodoma”.
Mowgli viene salvato da un deus ex machina, ma nel frattempo le macchinazioni di Shere Khan proseguono. La tigre, in barba alle leggi, comincia a trasportare le vacche sacre degli umani nella giungla. I lupi cominciano a diventare ansiosi, temendo le ritorsioni dell’uomo. Costretto dal populismo, pardon dalla volontà popolare, Akela sancisce che il branco non può più proteggere Mowgli. Subito dopo, l’autorità del vecchio lupo viene di nuovo minacciata: in quanto lupo anziano, fallisce nel catturare una preda, e questo dà il diritto a pretendenti più giovani di affrontarlo in duelli per prenderne il posto. Assistiamo ad un bagno di sangue dove lupi si azzannano a vicenda e vengono buttati giù da un precipizio. Come fa notare Baghera, però, “è la legge”: nessuno interviene, se non lo stesso Mowgli che salva la vita del capo. Per aver interferito con la legge, Mowgli viene esiliato e passerà a vivere con gli uomini.
Salto la descrizione di tutto ciò che accade nel villaggio degli umani, limitandomi a dire che ci sono scene veramente ben fatte. A questo punto però possiamo concentrarci appieno sull’aspetto interessante: ovvero la natura della legge – e quanto questo film ci propone a proposito.
Animali come Baghera, che per tutto il film chiama Mowgli “fratellino”, sono restii ad aiutarlo quando per farlo dovrebbero contravvenire alle leggi. Lo stesso accade per la madre adottiva, che per quanto lo ami, non può sfidare l’intera società per il suo bene.
Per risolvere il conflitto con Shere Khan, Mowgli sarà costretto a farsi giustizia da sé, in pieno accordo con la retorica del supereroe/vigilante a cui siamo abituati. Da notare che per riuscire nell’impresa il protagonista compierà un paio di scelte discutibili, come permettere, tramite le sue azioni, che un cacciatore nel villaggio e una sorta di surrogato di figura paterna venga ucciso. Alla fine, Shere Khan viene finalmente sconfitto e in virtù di questo Mowgli diventa nuovo capobranco dei lupi.
In altre parole concetti come l’onore (come l’unità del branco) e il rispetto delle leggi (come il divieto di cacciare per solo divertimento) diventano concetti vuoti. Il sottotesto del film è che alla base della giustificazione del potere non ci sono concetti come la giustizia o il bene comune, ma la forza. Shere Khan viola le leggi senza subire conseguenze se non delle sanzioni poco incisive; d’altra parte, personaggi meno muscolari, che vorrebbero aiutare Mowgli, sono frenati dal rispetto della legge e delle convenzioni sociali all’interno del branco. Quando alla fine il protagonista prevale, sono state la sua capacità di sfruttare gli altri, gli strumenti e l’ambiente a prevalere, non la sua superiorità morale. Mowgli si erge a giudice del bene e del male, decidendo da solo cosa è giusto fare, e viene premiato con la posizione di leadership.
Dubito che questo dualismo critico e questo alternarsi del protagonista tra l’essere dentro e fuori le leggi dei suoi “simili” siano messaggi voluti. Ma il sottotesto rende senza dubbio più interessante quella che altrimenti sarebbe solo l’ennesima trasposizione del romanzo di Kipling.