Avete presente quando si disse che Dunkirk rappresentava un colpo di coda del cinema, una sfida alla fruizione modello Netflix, perché non poteva che essere visto in sala? Per Bohemian Rhapsody vale esattamente lo stesso discorso. Merita, più che merita, di essere visto, non può che essere visto al cinema, è un’esperienza cinematografica rara. Fine della recensione.
Perché davvero il resto è speculazione, e promettiamo di stare attenti a non intaccare la magia: è una recensione che scriviamo prima dell’uscita italiana del film, non è quella che faremmo a distanza di un mese. Volendo sapremmo orientarci discretamente con la vita di Freddie Mercury e abbiamo Wikipedia a portata di mano, ma non abbiamo nessuna voglia di un’analisi storiobiografica. Il film non è fatto per quello, mischiando invece il dettaglio affettuoso e raffinato, la finzione cinematografica e la contraffazione storica, in un insieme artefatto ma verosimile di ciò che sono stati gli anni centrali della vita del più grande frontman. Basti sapere questo, per ora.
Che poi, avrebbe senso pensare di raccontare precisamente, in due ore abbondanti, un personaggio così grande, peraltro con la storia dei Queen come sfondo? Freddie Mercury è Freddie Mercury, da dove lo prendi ti sfugge, potresti raccontarne migliaia di episodi e ne avresti comunque trascurati altri mille, e lo stesso dicasi per la band, per la musica, per gli affetti e così via. Da parte nostra, meglio provare a raccogliere una serie di pensieri di sottofondo che potrebbero tornare utili a una prima visione.
Perché Bohemian Rhapsody merita? Centra il punto con la semplicità di un post su Facebook Giorgio Viaro, direttore di Best Movie e critico affidabile: “Ho visto Bohemian Rhapsody. Ora, voi considerate che perfino una pubblicità del colluttorio con la musica dei Queen sembrerebbe un poema epico strappabudella. Adesso pensate a un film sui Queen – furbo, facile, rotondo – con la musica dei Queen… Se poi avete un po’ più di quarant’anni come me, ed eravate abbastanza grandi per comprare i loro dischi, ma non abbastanza per essere mai stati a un loro concerto, l’emozione e il rimpianto vi metteranno alla prova. In bocca al lupo.”
Ecco, il film furbo, facile e rotondo. Ma soprattutto: l’emozione, il rimpianto. La musica esclusivamente Queen che scorre come pioggia per 134 minuti di film, la voce, quella voce, resa magnificamente in ogni scena di canto, le battute di spirito e l’umorismo che sprizza, gli effetti cinematografici riusciti, il ritmo sempre vivace, il personaggio che emerge. Decisamente promossa la somiglianza del protagonista, impressionante quella del chitarrista Brian May, buona quella di John Deacon (bassista), leggermente tirata per il batterista Roger Taylor. Valida la recitazione di tutti e merita gli elogi ricevuti Rami Malek, alla prova più importante della sua carriera. Certo, per tutto il film non puoi fare a meno di chiederti: con tutta la cura dei dettagli che hanno messo, perché lasciargli gli occhi azzurri? Perché non rendere anche gli occhi scuri di Freddie?
Indispensabile qualche nota sulle scelte narrative, ma non necessariamente le più importanti, sempre per non intaccare l’esperienza genuina della visione: emerge come figura fortemente positiva la compagna Mary Austin, unico grande amore sano. Completamente demolita la figura dell’amante/assistente Paul Prenter, molto rilevante nel film, che diviene sineddoche dell’intera dissolutezza vuota e approfittatrice attorno alla vita del protagonista. In generale l’omosessualità è resa quasi esclusivamente come depravazione e meschinità, con poche eccezioni riservate a Jim Hutton. Gli altri componenti della band risultano forse troppo innocenti, troppo ordinari nelle vite private, mentre vengono realisticamente raccontati i litigi interni. Valorizzate le peculiarità compositive di ciascuno, compreso John Deacon, più remissivo rispetto alle altre personalità del gruppo. L’AIDS viene raccontata con diverse licenze artistiche, esplicite e non, così come il rapporto di Freddie coi media.
Il vero capolavoro del film è senza dubbio costituito dal concerto Live Aid, individuato come acme della band (forse la più grande esibizione live di una rock band) e lieto fine della pellicola. Merita un capitolo a parte: se non l’avete presente andate a rivedere l’esibizione prima del film. La ricostruzione così meticolosa merita di restare come termine di paragone per il futuro. La grafica ci catapulta a Wembley al più grande concerto della storia; ogni particolare del palco, ogni tic del cantante, ogni sua mossa sono riprodotte con una fedeltà impressionante. Il risultato è un’esperienza cinematografica fra le più significative della mia vita e la conferma della preziosità della sala rispetto alla fruizione tramite device cui siamo abituati oggi. Credo si possa a buon diritto affermare che mai nella storia del cinema si è vista una tale ricostruzione di un evento di intrattenimento.
Il film è valido, il biopic è discutibile, l’esperienza cinematografica è eccezionale. Per il resto potrebbero aggiungersi infinite considerazioni, da rimandare a tempo opportuno e alle sedi opportune, sul film come sui Queen. A fronte del loro desiderio di realizzare la pellicola, di più di otto anni di lavoro fatti di cambi di rotta e ripensamenti, possiamo dire che della ricostruzione storica si discuterà, ma l’esperienza è perfettamente riuscita. Non perdetevela.
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