È stato rilasciato venerdì Pop Heart, il nuovo album di Giorgia Todrani. È un album di cover, anche se sarebbe più corretto definirle reinterpretazioni di musica pop, come suggerisce il titolo.
C’è un po’ di tutto. Si spazia dagli anni ’80, con gli Eurythmics e Madonna, fino ai giorni nostri: Rihanna, Mengoni e Jovanotti. Proprio perché a cantarle è lei, alcune tracce sono meglio dell’originale (ad esempio L’essenziale di Marco Mengoni, i due brani di Carmen Consoli). Il ritmo è lento, in alcuni casi fin troppo, le parole dei testi scandite con cura.
A inficiare il giudizio sul disco sono due aspetti: le basi e gli arrangiamenti, nella quasi totalità dei casi francamente terribili; e infine la scelta dei brani, alquanto discutibili (perché, tra tutte le canzoni possibili proprio queste?).
Gli unici brani che si salvano sono: Anima, l’essenziale e – i due migliori in assoluto – “Dune mosse” di Zucchero e “I will always love you” – qui si percepisce un gran lavoro dietro, di voce e di tecnica. La stessa cantante ha ammesso che interpretare Whitney Houston è stata una “vera e propria faticaccia“. Ma il risultato in questo caso è stato eccellente.
La domanda che sorge spontanea è perché un artista del suo calibro debba limitarsi a realizzare un album di cover, anziché di inediti, scelta che ha fatto storcere il naso ai più. In parte la spiegazione è che Giorgia nasce come cantante di cover, quando nei primi anni ’90, prima del successo sanremese, si dilettava a cantare con una band in piccoli locali. Ed erano diversi anni che rifiutava un progetto del genere. Quindi sicuramente alla base c’era la voglia di sperimentare qualcosa di diverso.
Tuttavia, una simile scelta riflette anche lo spirito dei tempi, le difficoltà in cui da tempo si trova l’industria musicale. Naturalmente, il discorso vale in generale per tutto il settore culturale, incapace di innovare e di rischiare, deteriorato dallo streaming commerciale che ha permesso a chiunque, a prescindere dal talento vocale, un successo immediato già con un solo brano, purché la melodia sia orecchiabile, il testo banale.
Nel caso di Giorgia, è infatti da “Ladra di vento“, che non produce un repertorio che sia all’altezza della sua voce (l’album precedente a questo, “Oronero“, non fa eccezione). Una voce splendida, tecnicamente perfetta, anche se talvolta un po’ fredda; e che inevitabilmente, rispetto ai primi tempi (nel biennio 94/96 era così strabiliante da eguagliare, se non addirittura superare, la più grande di tutte Mina), ha perso smalto e potenza, aumentando però l’estensione.
In questo senso, l’errore capitale è stato affidarsi a un produttore come Michele Canova (lo stesso dei suoi ultimi tre lavori, o di altri pseudo-cantanti molto in voga oggi come Baby k, Fabri Fibra, Francesca Michelin ecc).
Il 23 novembre l’artista romana si esibirà per un concerto benefico all’interno del Duomo di Milano. Ad aprile partirà il tour nei palazzetti (i biglietti sono già tutti esauriti, a dimostrazione della grande fedeltà dei fan, che prescinde dal contenuto discografico).
Non è escluso che questo disco, a seconda del gradimento, abbia un seguito (il sottotitolo è per l’appunto volume 1).
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