Articolo scritto da Giuditta Fullone e Niccolò Bianchi
Il comune di Milano e la Fondazione Cineteca Italiana da undici anni promuovono il Festival Piccolo Grande Cinema, una piccola realtà con proiezioni allo Spazio Oberdan e recentemente anche al MIC, al cui interno trova spazio il concorso Rivelazioni, competizione dedicata alle opere indipendenti di registi italiani esordienti (quest’anno in particolare i film presentati erano tutte opere prime e un’opera seconda).
Alla luce dell’entusiasmo dimostrato da Niccolò, che ha partecipato alla scorsa edizione, quest’anno anche Giuditta ha mandato la richiesta per partecipare alla giuria volontaria; uscendo dalla sala, è inevitabile per due appassionati di cinema un confronto e un’analisi dei film appena visti, e siamo rimasti piacevolmente sorpresi dal fatto che le sensazioni e le riflessioni così nate erano in gran parte concordanti.
Abbiamo dunque avuto modo di gioire dei film che ci hanno stupiti, e lamentarci ferocemente di quelli che rasentavano l’indecenza tecnica e/o narrativa. Fortunatamente la maggior parte dei film selezionati dagli organizzatori si è dimostrata rappresentativa delle grandi capacità dei loro registi.
Il film che ci ha accolti nel concorso è stato Zen sul ghiaccio sottile di Margherita Ferri, che alla fine della proiezione ha raccontato apertamente del suo coinvolgimento personale con le tematiche affrontate in questa sua opera prima – sentimento condiviso anche dall’attrice protagonista – coinvolgimento che riteniamo essere un elemento importante per creare una pellicola di valore. Ha avuto una lunga lavorazione – quasi laboratoriale, vista la possibilità data ai giovani attori di dare il loro contributo ai dialoghi – che l’ha portato a trasformarsi dal thriller iniziale per cui aveva vinto il premio Solinas per la sceneggiatura nel 2014, ad un film sul percorso di ricerca interiore delle due figure principali. Il pubblico ha evidenziato un parallelo con la tetralogia della morte di Gus Van Saant (una serie di film sugli adolescenti statunitensi) che la regista ha confermato essere fra i suoi intenti. Questo approccio ha portato alla scelta di attori non professionisti, la cui recitazione ingenua è forse l’unica pecca di quest’opera che affronta la questione dell’identità di genere, in particolare attraverso le domande ‘Chi sono?’ e ‘Chi mi piace?’ in modo per nulla banale.
La tematica è presentata tramite il simbolismo della corazza da hockey della protagonista – una giovane ragazza di provincia emarginata dai suoi coetanei per il suo atteggiamento mascolino – che riflette la sua chiusura emotiva. Interessante il percorso dell’altra figura femminile principale, apparentemente conforme alla dimensione identitaria ‘canonica’, che grazie al confronto con la protagonista riesce a comprendere le proprie debolezze e fragilità. La chiave del film è dunque legata alla tensione tipica dei giovani fra la persona che gli altri vorrebbero che fossero, e chi invece difficilmente possono ammettere di essere; tali difficoltà vengono analizzate attraverso i dubbi di una protagonista che non si limita ad essere una vittima inerme, ma incarna bene le complessità di chi è arrabbiato, confuso e ribelle per ciò che la fa chiudere in se stessa.
VOTO: 3 su 4
La rabbia è una tematica dominante anche ne Il diario di Carmela di Vincenzo Caiazzo, regista che ci ha piacevolmente colpiti per la schiettezza e spontaneità con cui ha parlato del suo film, della sua necessità di mettere in scena questa storia – peraltro liberamente tratta da una storia reale di una quattordicenne che, costretta dalla sua famiglia a spacciare droga, perde le gioie della sua adolescenza – e dalle difficoltà che tutti i registi devono affrontare. Nella sua semplicità, questa pellicola affronta temi sociali tramite una sceneggiatura che sembra voler comporre un mosaico di eventi, piuttosto che una narrazione forte: quello che ci è rimasto è più uno spaccato del contesto, che non una storia completa. In alcuni casi la regia è fin troppo concitata (montaggio di inquadrature e scene a volte talmente brevi da sfuggire alla piena attenzione dello spettatore), ma al contempo ha il merito di saper rendere invisibile il cambio fra mezzi di ripresa professionali ed amatoriali. Una peculiarità apprezzata da tutto il pubblico ed anche da noi è stata la colonna sonora perlopiù jazz, molto lontana dai canoni del genere.
VOTO: 2 su 4 Giuditta, 3 su 4 Niccolò
Apparentemente più professionale, ma dai risultati ben più scarsi, L’eroe di Cristiano Anania ci è parso essere il film più apprezzato dal pubblico. Forte del suo genere investigativo e di un volto noto della televisione (Salvatore Esposito della serie Gomorra) che interpreta il protagonista giornalista, la pellicola è banale e propina allo spettatore un finale ‘a sorpresa’ scontatissimo e deludente. Per quanto il regista mirasse a porre allo spettatore la questione del “cosa faresti quando non hai nulla da perdere?” di fronte ad un bivio impostogli dalla vita, la scelta assolutamente poco etica presa dal protagonista non è invece un’opzione che gli era stata messa davanti. Anche le basi logiche e narrative del film sono estremamente banali e gli avvenimenti sono spinti unicamente dalla convenience (cioè la ‘convenienza’ dell’ “essere al posto giusto – o fare la cosa giusta – nel momento giusto”). I dialoghi che ne derivano sono vuoti e forzati. La recitazione è perlopiù buona, ma un paio di personaggi sono discontinui o esagerati, così come la colonna sonora è carica di pathos eccessivo. Infine, la fotografia ci è parsa profondamente ossessionata da movimenti di camera lenti, esasperanti e fondamentalmente inutili – vi suggeriamo la visione di un ottimo e breve video sull’uso appropriato di questo aspetto tecnico.
VOTO: 1 su 4
Il film che secondo noi è stato di gran lunga il migliore è Un giorno all’improvviso di Ciro D’Emilio, presentato nella sezione Orizzonti della Biennale Cinema di Venezia di quest’anno e la cui uscita in sala è prevista per il 29 novembre. La fotografia è ottima: è infatti raro anche per produzioni dai budget ben superiori riuscire a proporre riprese fatte con camera a mano che non risultino nauseanti, e questa pellicola riesce a farlo egregiamente anche con la limitazione di un’inquadratura stretta. La recitazione è anch’essa ottima, ed esalta una solida costruzione dei personaggi – molto realistici ed umani. Anche in questo caso, come ne Il diario di Carmela, il finale è aperto, ma – mentre nel film di Vincenzo Caiazzo si rimane con una sensazione d’incompletezza – tira le fila del discorso in modo esauriente.
Dall’inizio alla fine vediamo un ragazzo le cui ragioni di vita ci paiono essere le attente cure dedicate alla madre malata ed il perseguimento di una carriera calcistica che possa portarlo al successo – ma nel finale capiamo che solo una delle due gli è davvero cara, quando uno stravolgimento dei suoi piani lo costringe a rivedere la propria vita. Particolarmente degna di merito una scena verso la fine, in cui emerge tutta l’amarezza di chi fin da giovane ha dovuto rinunciare alla propria spensieratezza, senza che gli altri se ne siano resi conto.
VOTO: 4 su 4 (il nostro vincitore)
Purtroppo, del film successivo (I passi leggeri di Vittorio Rifranti) c’è poco di buono da dire. Per quanto non possiamo dare un giudizio completo – dato che dopo soli 20 minuti abbiamo deciso di alzarci ed uscire dalla sala – ci teniamo a sottolineare alcuni aspetti che ci hanno portati a ritenerlo un pessimo esempio di cinema. L’audio della pellicola era al di sotto dei livelli di decenza di un prodotto che si dice professionale. Con la compagnia teatrale de i Birbanti abbiamo avuto modo di produrre alcuni cortometraggi e, pur non essendo professionisti nell’ambito dell’ingegneria del suono, riteniamo che portare nelle sale un film in cui il rumore di fondo è forte, continuo e nemmeno omogeneo sia imperdonabile. Ogni scricchiolio era più forte del parlato, ed in alcune scene la traccia audio mancava invece del tutto. Andando oltre gli aspetti tecnici, le poche scene che abbiamo visto erano presuntuose, inutilmente lunghe, e le informazioni erano unicamente fornite da dialoghi banali e didascalici.
VOTO: inqualificabile
Pessimo parere anche per La fuga di Sandra Vannucchi. Abbiamo avuto un cattivo presentimento già dal momento in cui la regista, prima della proiezione, ha tenuto ad elencare tutti i festival internazionali a cui il film ha partecipato e tutti i premi che pare la pellicola e gli attori abbiano vinto – dimostrando una mancanza di modestia che l’ha differenziata da tutti gli altri autori dei film in concorso, più ‘terra terra’ ed in attesa di un riscontro piuttosto che di un riconoscimento. La recitazione è forzata, sia per l’incapacità di alcuni attori che per la direzione sbagliata data dalla regia e dalla sceneggiatura ai più professionisti. Anche questa volta un film sociale, ma le due importanti tematiche (le condizioni dei Rom e la depressione) sono trattate con superficialità: non si ha l’analisi costruttiva tipica di questo genere, ma un racconto abbozzato costruito su luoghi comuni.
VOTO: 1 su 4
[Per noi sarebbe stato 0 su 4 – per poterlo differenziare da L’eroe che per quanto banale era comunque un prodotto cinematografico dignitoso – ma non era un’opzione]
Giunti alla conclusione del concorso ci siamo dunque arricchiti di almeno 4 film che si possano definire tali, alcuni dei quali ci hanno colpito molto – ed ai cui registi auguriamo di procedere con la loro carriera a testa alta, dati gli ottimi risultati. Parliamo di Margherita Ferri, Vincenzo Caiazzo e Ciro D’Emilio; è stata la pellicola di quest’ultimo (Un giorno all’improvviso) a vincere il premio per il miglior film nel concorso, come da noi sperato, seguito al secondo posto da Zen sul ghiaccio sottile.
Personalmente riteniamo che sia encomiabile e lodevole che ci siano ancora proposte culturali come questa iniziativa, per quanto piccole possano essere le realtà da cui attingono e che foraggiano. È giusto che si dia modo agli esordienti di poter essere visti, ed anche al pubblico di poter scoprire prodotti non ‘confezionati’ e non convenzionali.