Big Mouth è una serie originale Netflix che ha seguito lo stile d’animazione già intrapreso da cartoni più noti (Simpson, Griffin, South Park…) concentrandosi però su un momento particolare: la pubertà. La serie è infatti interamente incentrata sulla scoperta della sessualità da parte di ragazzini che in Italia andrebbero alle medie, e la racconta in modo esplicito fino a diventare disturbante.
La premessa dovuta è che non si tratta propriamente di una recensione: cercheremo invece di prendere sul serio Big Mouth concentrandoci su alcuni aspetti e tralasciandone altri che invece meriterebbero attenzione alla luce di una critica obiettiva. In particolare sorvoleremo su alcuni dei tratti più surreali e grotteschi, quando meno interessanti dal punto di vista contenutistico. La serie può benissimo essere goduta come prodotto leggero e demenziale, ma presenta anche una dimensione più profonda e su quella ci concentreremo.
Non sarà una recensione anche perché abbracceremo un punto di vista troppo soggettivo: la serie, se vissuta con attenzione, riflette per ciascuno memorie della pubertà, inevitabilmente diverse per ogni spettatore. E forse qui sta il primo aspetto caratteristico di Big Mouth: lo sguardo profondamente affettuoso che rivolge all’età che racconta. Ha la volgarità esasperata di altre serie come South Park ma non ne condivide neanche lontanamente il cinismo. Trova invece una conciliazione, una crescita catartica nel corso di entrambe le serie e spesso nell’ambito delle singole puntate.
La prospettiva è indicativa di un target che non corrisponde affatto alle fasce di età dei protagonisti della serie. Ha protagonisti ragazzini di oggi ma si rivolge a persone più mature che hanno già superato da anni quel periodo di vita, perché possano sorriderne più consapevolmente. In effetti mi ha stupito quanto potessi sentire vicine alle mie esperienze le vicende raccontate: questo è stato in parte possibile grazie a una relativizzazione dell’utilizzo dei social nella serie. Esistono, fanno parte della vita degli stessi bambini ma non sono mai decisivi per la trama.
Se le prime due puntate sono principalmente tematiche, da fasi tipiche (le prime eiaculazioni di Andrew, le prime mestruazioni di Jessi) nel corso degli episodi emergono più nitidamente i personaggi. Questo è possibile anche grazie a una progressiva assuefazione agli eccessi della serie, così d’impatto da attirare inevitabilmente l’attenzione alla prima visione. Ho apprezzato maggiormente le prime puntate riguardandole, rispetto alla prima impressione, catturata da figure massimamente caratterizzanti come il Mostro degli ormoni e dal pregiudizio su quella che ritenevo un’inevitabile schematicità tematica (masturbazione – primo bacio – mestruazione – crisi d’identità – pornodipendenza). La scoperta più interessante è stata constatare al contrario la capacità di Big Mouth di emergere al di là di questi appuntamenti fissi della pubertà, raccontando la vita dei suoi piccoli personaggi.
Un po’ come alcuni critici letterari scrissero che il vero protagonista dei “Promessi sposi”, più che Renzo e Lucia, era il ‘600, potremmo dire che la vera protagonista di Big Mouth, più dei singoli bambini, sia la pubertà. Il grado di profondità dei personaggi principali varia a seconda del livello di maturità degli stessi ragazzini (come tutti sappiamo particolarmente soggettivo a quell’età). Andrew e Nick sono teneramente immaturi e particolarmente confusi su ciò che gli sta accadendo. La loro stessa amicizia ha ancora i tratti dell’infanzia: vengono da contesti familiari diversi, Nick non è ancora sviluppato ma può ambire a migliori riscontri sociali e sentimentali rispetto ad Andrew, che è più avanti nella crescita ma anche più imbranato. Ma queste differenze, alla loro età, non sono ancora un ostacolo rilevante. Così come sono capaci solo di litigi superficiali, superati sempre rapidamente dal grande affetto reciproco. La ragazzina Jessi è invece significativamente più matura e intelligente: è chiamata ad affrontare problemi reali come la separazione dei genitori, ha già elaborato una propria coscienza politica, per quanto iperbolica, deve gestire gli attacchi di rabbia e di ribellione, peraltro spesso seguiti da autentico pentimento. È più matura anche rispetto alle altre femmine, come Missy, molto più bambina e lineare come secchiona a totale immagine dei genitori, e le altre meramente macchiettistiche (la bellona vanesia, l’amica brutta e stupida che le fa da zerbino) fino a Gina che arriverà con la seconda stagione comportando buona parte della maggiore profondità tematica di questa.
Per quanto possa sembrare stonato il paragone, questi piccoli personaggi, ciascuno caratterizzato da proprie manie talvolta del tutto estemporanee (come la fissazione per la magia da parte di Jay) potrebbero essere vagamente considerati dei Peanuts della pubertà, del sesso, volgari. Con la differenza, se già non bastasse l’associazione blasfema alla purezza di Schulz, che in Big Mouth le famiglie compaiono e anzi rappresentano uno degli aspetti più interessanti.
Le coppie di genitori sono spesso l’altra faccia della medaglia rappresentata dai ragazzini. E la caratterizzazione psicologica è matura tanto da risultare credibile, nonostante il taglio della serie: i genitori super affiatati di Nick, agiati e “clingy”, comicamente inconsapevoli nel loro innamoramento per la vita; quelli mediocri di Andrew, infelici e non speculari come quelli di cui sopra (madre frustrata e padre ottuso e scontroso); i genitori separati in casa di Jessi, totalmente incompatibili e costante fonte di dispiacere per la piccola ribelle; gli inesistenti madre e padre divorziati di Jay, con lei grottescamente alienata e lui ferocemente maschilista e retrivo, che però compare quasi unicamente nei divertenti slogan delle sue pubblicità da avvocato divorzista citati fuori contesto dai personaggi.
Ma la vera eccezionalità di Big Mouth sta nel superare l’ipocrisia che porterebbe a ritenere inammissibile una trattazione così esplicita della sessualità per dei bambini. Fino a mostrarne talvolta i genitali con primissimi piani, o addirittura soggettivizzarli come nell’interessante dialogo tra Jessi e la sua vagina. O ancora nella soggettivazione dei cuscini, usati come oggetto sessuale da Jay. Nella serie i personaggi sono infantili, ma la loro sessualità non lo è. Per questo in primo luogo viene esibita nella sua schiacciante brutalità: i mostri degli ormoni rappresentano l’equivalente dei diavoletti che sussurrano ai personaggi stilizzati come cattiva coscienza nei cartoni tradizionali, ma sono anche la componente sessuale che ci accompagna in qualsiasi momento. E per questo la serie riesce ad essere addirittura educativa, e in modo non banale. Lascia messaggi sulle corrette condotte sessuali tra maschio e femmina, sull’importanza dell’accettazione di se stessi e quindi sul rispetto reciproco, sul superamento degli stereotipi presenti anche nella più disinibita società americana sul rapporto tra le femmine e il piacere sessuale o le conquiste. Come mi ha fatto notare l’amico Francesco Cinquegrani, il finale della seconda stagione nella scelta del mostro di Nick rappresenta inoltre un bel messaggio, per nulla scontato, contro il ‘maschilismo tossico’.
Si può anzi dire che la seconda stagione rappresenti un’evoluzione della prima, con i personaggi anche più secondari che impareranno a convivere con lo Spirito della vergogna, altra impersonificazione antagonista fino al momento in cui non si sia in grado di relazionarcisi. I momenti più elevati di entrambe le stagioni sono rappresentati dai pigiama party, in cui i ragazzini vivono esperienze particolari (o traumatizzanti) socializzando ulteriormente e maturando.
Notevoli anche la canzone in stile Queen della puntata dedicata al timore di essere gay, e diverse trovate comiche nel personaggio del fantasma di Duke Ellington, purtroppo meno valorizzato nella seconda serie. Del tutto atipica la macchietta comica rappresentata da Coach Steve, senz’altro utile per spezzare la narrazione, ma portatore di un umorsimo obiettivamente non assortito, nel bene e nel male, con la cifra comica della serie. Molto efficace invece la satira politica e sociale, piazzata con tempi perfetti in brevi lampi.
Big Mouth resta un prodotto unico per la sua sincerità spigliata ma affettuosa, sicuramente inaccessibile anche per una grande quantità di Paesi liberi e che difficilmente avremmo trovato solo pochi anni fa. È molto breve e racconta piccole vite in un mondo piccolo, risultando pertanto facilissimo affezionarsi ai suoi protagonisti. Riesce soprattutto a ricondurre a una straordinaria stagione della vita di ciascuno, a partire dalla quale si diventa propriamente se stessi. In questo senso chiunque aprezzi l’originalità di Big Mouth sta in parte celebrando l’unicità della propria adolescenza. E della propria sessualità, ammesso che siano distinguibili.