Ne hanno fatta di strada, i Blossoms. Formatasi nel 2013, la band dei cinque ragazzi di Stockport è forte di un omonimo album di debutto che ha raggiunto il primo posto della UK Album Chart trainato da “Charlemagne” e “Honey Sweet”, una nomination al Mercury Prize nel 2017 (in lista con loro Ed Sheeran, Alt-J e the XX, tra gli altri) e un tour a supporto di Noel Gallagher, artista ben saldo nel loro pantheon – insieme al fratello Liam, ad Alex Turner degli Arctic Monkeys e al “modfather” Paul Weller – cui è stato anche recentemente proposto di comporre la sigla di uno show televisivo tutto loro, ideato e già sottoposto ai signori di Netflix. Se poi aggiungiamo il fatto che in veste di produttore troviamo James Skelly, non esattamente nato ieri (voce e volto dei Coral, oggi dimostra gusto e talento anche come mentore di progetti come The Sundowners e She Drew The Gun), è facile capire come i nostri lads difficilmente possano uscire in malo modo dai binari grazie a una sapiente e fortunata sintesi di freschezza melodica e know-how, disimpegno post-adolescenziale e studio diligente della storia del pop tanto sacro quanto profano degli ultimi quarant’anni.
A due anni di distanza dall’opera prima arriva “Cool Like You“, collezione di undici potenziali hit single che da un lato conferma una formula vincente e dall’altro ne cambia cautamente i connotati. Stavolta c’è una decisa enfasi sulle tastiere, con un intossicante profumo di synth-pop figlio degli anni Ottanta che persiste per tutta la durata del disco: sembra proprio che il frontman Tom Ogden abbia accantonato la chitarra e abbia composto le nuove canzoni alla tastiera, giocando con i suoni e facendosi ispirare da playlist d’antan – stratagemma perfetto per confezionare un album primaverile, frizzante, ironico e al tempo stesso intriso di malinconia (il ragazzo è reduce da una cocente delusione amorosa).
“Cool Like You” suona quasi come un greatest hits senza troppi intoppi o minuti sprecati, con canzoni che sembrano perfette per episodi di “Stranger Things“: nulla che non sia già stato proposto da altri, con vari gradi di successo, ma il songwriting è furbissimo nel richiamare esplicitamente stili collaudati e acchiappare così più generazioni di ascoltatori alla volta. Prendiamo “I Can’t Stand It“, lanciata come primo singolo: basta che il venticinquenne Ogden menzioni nelle interviste l’influenza dei Prefab Sprout (quelli di “Cars and Girls” e “The World Awake”, a ben sentire, più che della pietra miliare “Steve McQueen”) ed è subito chiaro che nulla è qui per caso. Come se il riff di “There’s a Reason Why (I Never Returned Your Calls)” non fosse già di suo una rete da pesca, piazzata strategicamente all’inizio, per i millenials ma quasi più per i genitori che ascoltavano i Duran Duran e i Pet Shop Boys.
Tornano in mente i primi Bravery e la brevissima avventura degli Elkland (poi The Drums) nella title-track, con sintetizzatori da sala giochi e un giretto europop dalle parti di “Fotonovela” di Ivan pronto per il sequel di “Chiamami con il tuo nome” e confondersi in un juke-box, mentre Giorgio Moroder e gli Empire of the Sun si incontrano in “Unfaithful” (efficace il gioco di contrasti, tra una base sgargiante e saltellante e la citazione prét-a-porter di T.S. Eliot “April is the cruellest month”). “Stranger Still” dimostra che non c’è sempre il sole cocente, in questo lavoro, e che Brandon Flowers dei Killers farebbe bene a rendersi conto che c’è concorrenza in giro ed è anche piuttosto agguerrita.
Basterebbe un arrangiamento più sofisticato e la dolceamara “How Long Will It Last?” sarebbe un evergreen mancato dei Lotus Eaters, che non sfigura subito prima della cavalcata notturna di “Between The Eyes“. Più interlocutorio, ma non senza un perché, un episodio come “I Just Imagined You” che si posiziona in un’insolita zona di confine tra i Kooks e i Cars di “Heartbeat City”, mentre suona fuori posto “Giving Up The Ghost” con la sua atmosfera anni 2000 (suona un po’ come i Carpark North e un po’ come i Liquido). “Lying Again” è il brano più affine ai Coral dei primi tempi, con un tocco alla Paul Weller che di sicuro non guasta, mentre “Love Talk” è un inno che gli OMD potrebbero ancora scrivere, con la giusta dose di concentrazione.
Un disco che è una girandola di suggestioni, di egregi esercizi di stile e di ritornelli killer, con una propria coerenza stilistica e una scaletta ben strutturata. Divertente e divertito, “Cool Like You” si candida ad essere una fucina di radio hit per ogni evenienza: la voce di Tom ha forse smarrito qualche grammo di espressività e di sana esuberanza, e talvolta sembra annegare nel mare di drum machine e sintetizzatori più di quanto ci si auspicherebbe, ma si attendono le prossime mosse per comprendere se si è trattato o meno di una scelta stilistica. Il raccolto, anche questa volta, è all’altezza rispetto alle aspettative. Esistono anche i “facili secondi album”, e questo entra di diritto nella lista.