In tempi di galoppante crisi letteraria e ispirazionale, il confronto coi classici è d’obbligo; a maggior ragione in campi in cui la tradizione è secolare. Così è per il teatro, laddove il contemporaneo attinge a piene mani dalla modernita, spesso riscoprendone i lati nascosti. Accade cosi che a Milano una regia teatrale brechtiana raggiunga il successo – sancito da una ripresa in pompa magna a due anni di distanza dalla prima rappresentazione. Stiamo parlando del Mr. Pùntila del Teatro dell’Elfo; tra i molti e commoventi personaggi originati dalla generosa penna e dalla fervida immaginazione di Bertold Brecht Mr. Pùntila è il più simpatico e il più farabutto. Questa definizione può sembrare forse contraddittoria e infatti è esattamente così.
Non a caso Jan Knopf, direttore dell’istituto di studi sul testo Arbeitstelle Bertolt Brecht, definisce la poetica di quest’autore eine Ästhetik der Widersprüche, un’estetica della contraddizione che a partire dalla situazione agìta sulla scena porti per associazione il pubblico a confrontarsi onestamente con la sua realtà, a scoprirne le architetture e le crepe. I vizi dei personaggi e i guasti del loro mondo non sono mai lontani da quelli delle persone che osservano la rappresentazione; al massimo, ne divergono per intensità in quanto sul palco il realismo e la sua inclemente razionalità sono portati fino alle estreme conseguenze, con effetti ora comici ora tragici.
Molte risate, dal retrogusto amaro.
Questa è la promessa di una più recenti messe in scena dello spassoso dramma di Mr. Pùntila e il suo servo Matti, regia di Bruni/Frongia e produzione del Teatro dell’Elfo.
Il ricco possidente Pùntila da sobrio è un tiranno che vessa e sfrutta i suoi dipendenti e vuol dare in moglie sua figlia a un diplomatico inetto e a caccia di dote, mentre quando è ubriaco diventa amico di tutti e vuol far sposare la giovane al suo autista Matti.
Dal foglio di sala: “un’esilarante allegoria del capitalismo dove Karl Marx incontra suo fratello (e alter ego) Groucho”. Questi due personaggi, coabitanti nello stesso attore, Ferdinando Bruni, e le opposte situazioni che egli/essi sa creare e far coesistere durante il corso dello spettacolo costituiscono i poli tra i quali oscilla la pièce. Il ritmo e l’ampiezza di queste oscillazioni sono imprevedibili e inaspettati, al di fuori di ogni logica, e perciò sbugiardano l’assurda pretesa che ogni uomo ha sul destino, innanzitutto il proprio e di riflesso quello altrui: poterlo prevedere e conoscere. Brecht ci mette così di fronte alla dura realtà dei personaggi, succubi di un lunatico padrone, ma allo stesso tempo suggerisce che i bruschi ed improvvisi mutamenti della realtà in cui viviamo abbiano sul pubblico lo stesso brutale potere che Pùntila esercita sui suoi servi e i suoi familiari.
Una simile verità, così lontana dalle aspettative che si hanno su una normale serata a teatro, rappresenta ciò che viene chiamato straniamento, o die Entfremdung.
Un trucco geniale, certo. Ma se vogliamo anche un trucco un po’ sporco: il teatro epico, come Brecht chiama il genere che usa un tale effetto, si mette ad influenzare la vita senza rinunciare al suo status di “arte”. È, questa, una duplice natura oscura e molto fragile che infatti per la sua poca trasparenza dà spesso origine a interpretazioni di sé non proprio ortodosse e a semi-straniamenti di vario genere – alcuni molto interessanti.
E’ questo il caso del Mr Pùntila dell’Elfo, per il quale però difficilmente si può parlare di “commedia popolare” nell’accezione intesa da Brecht; la nuova produzione dedicatagli è invece manierista.
Lo è nell’affastellamento di scenografie grandiose, sviluppate in verticale su due livelli tra stilemi rustico-pop.
Lo è nell’accompagnamento musicale live del polistrumentista Matteo de Mojana, presenza costante e prezioso corredo del canto sfrenato di Ida Marinelli e del suo coro di donne.
Lo è infine nella recitazione di Bruni stesso e dei suoi famigli, l’autista Luciano Scarpa, la figlia Elena Russo Arman, il promesso genero Umberto Petranca e a seguire tutto il cast.
Brecht ebbe a dire che “il pregio principale del teatro epico è precisamente la sua naturalezza, il suo carattere tutto terrestre, il suo umorismo, la sua rinuncia a tutte le incrostazioni mistiche che il teatro tradizionale si porta appresso fin dall’antichità”. Questo spettacolo si inscrive invece in una consolidata tradizione dell’Elfo: come molte altre produzioni del milanese Teatro d’Arte Contemporanea, è stato un successo di pubblico che riprende registi, attori, ritmi e cifre stilistiche attentamente studiati e costruiti in quarant’anni di storia. Nessuno straniamento, (solo – senza voler dire ch’è poco) un bell’esempio di arte drammatica.
Ma se lo scopo di questa commedia è davvero “rappresentare il mondo in maniera che divenga maneggevole”, come sosteneva l’autore, la maniera e le buone maniere dell’attore non bastano; bisogna piuttosto mostrare in palmo di mano il proprio personaggio come fosse il feticcio del pubblico, “mantenendo il contegno di chi si limita a suggerire, a proporre” senza mai sentirsi al sicuro da una sbronza di realtà.