La dolce confusione di Alessandro Onorato

La dolce confusione di Alessandro Onorato

A settembre ci eravamo trovati con Alessandro Onorato, presidente e molto di più dei Birbanti, per parlare della nuova stagione da programmare. Nell’intervista molto spazio era dedicato a “La dolce confusione”, opera dell’anno per la compagnia teatrale milanese, ispirata al cinema di Fellini e in particolare a “8 1/2”. Dopo aver letto la sceneggiatura, abbiamo incontrato di nuovo Alessandro per trattare più in profondità i contenuti dell’opera e per essere aggiornati sullo stato dei lavori.

 

La scorsa volta mi avevi detto che ti sarebbe molto piaciuto esordire a Rimini, anche perché non si poteva separare un omaggio a Fellini dalla Romagna. E così sarà?

Sì, esattamente. In realtà andare in scena a Rimini è un piccolo sogno che si avvera, perché la prima volta che sono andato a vedere un teatro a Rimini per farci uno spettacolo è stato con Chiara (Verga ndr) fra la fine del 2011 e l’inizio del 2012. Andammo a vedere due teatri per portarci uno spettacolo. In tutti questi anni ne abbiamo sempre parlato… finalmente succede.

Cosa puoi dirci sulla preparazione dello spettacolo, anche dal punto di vista tecnico? In particolare rispetto al lato musical che appare un po’ come una novità per i Birbanti.

In realtà il musical è un genere ben definito: questo spettacolo non è un musical a tutti gli effetti, perché non rientra propriamente in questi canoni. È forse più vicino alla commedia musicale come si intendeva qualche decennio fa, in cui c’è sicuramente una parte cantata, una parte ballata; e in cui la trama evolve attraverso queste parti. Ma non è l’unico linguaggio utilizzato. Avevamo già sperimentato il teatro di movimento fin dai tempi di Faust; l’uso di ballerine in Dracula  e in Diva’s. E così canzoni cantate live: però in quel periodo il canto e il ballo erano più estetica che narrazione: qua la storia andrà proprio avanti attraverso canzoni e coreografie. Dal punto di vista tecnico invece Alessia Di Domenico si sta occupando di tutta la parte canora mentre Maria Luisa Manzo si occupa delle coreografie.

A questo proposito allora mi viene da chiederti quanto abbia influito in questa evoluzione tecnica della narrazione il fatto che stessi cercando di raccontare il cinema di Fellini, che si compone sempre di sbalzi onirici, di visioni..?

Beh, senz’altro il ballo funziona molto nell’onirico. Prima abbiamo citato Dracula: in quello spettacolo una delle scene ballate era appunto un flashback. Quindi è stato sicuramente un elemento decisivo. Peraltro rendere l’onirico a teatro è un esperimento difficilissimo: da una parte può esserci un ottimo risultato, dall’altro c’è il rischio che venga fuori qualcosa che può risultare straniante ai limiti dello stupido. Ci sono state tante scelte, anche nuove, alcune delle quali preferirei non raccontarle ora. L’unico dispiacere che ho è che con le nuove normative antincendio non si possa utilizzare una macchina del fumo a teatro. In questo spettacolo il fumo e la nebbia ci sarebbero stati divinamente. Però c’è un effetto speciale che ho creato io e che inaugurerò per questo spettacolo.

Che scopriremo lì, immagino. Venendo più alle tematiche dello spettacolo, Fellini lottò molto contro un’interpretazione autobiografica di “8 1/2”. Voleva che lo spettatore si scordasse l’immagine di Mastroianni, del regista acclamato, del mondo dei riflettori, per riconoscere lo smarrimento e i quesiti che riguardano tutti. Raccontare l’uomo qualunque più che la star. Secondo te a teatro rendere tutto ciò è più semplice o più difficile? Soprattutto, era il tuo stesso intento?

Mi sembra una lettura perfetta di quello che è “8 1/2”, e del livello autobiografico, che deriva anche dal fatto che Fellini abbia usato spesso Mastroianni al posto di se stesso. Era chiaro che l’intenzione di “8 1/2” fosse di fare un film universale, ed è un’intenzione che comunque è riuscita molto bene all’epoca, parzialmente al giorno d’oggi. Perché al giorno d’oggi chi guarda il film lo vede come una storia di un regista in crisi, non come una storia universale, e credo che questo sia dovuto al fatto che il pubblico si è fortemente impigrito. Salvo pochi casi, a livello cinematografico è veramente difficile riuscire a fare successo con qualcosa che non sia immediato per il pubblico. Oggi il livello di concentrazione delle persone è brevissimo, la durata di un video su Instagram; già i video da dieci minuti su YouTube sembrano cosa del decennio scorso. Questo crea un problema: la difficoltà per me è raccontare la crisi che vive ogni uomo ma farlo in maniera che sia immediatamente comprensibile. Ciò che mi fa soffrire è che in quest’opera ho dovuto essere più didascalico di quanto non lo sia “8 1/2”, che non è un film didascalico in alcun modo.

Una delle cose che si notano di più leggendo la sceneggiatura è che hai costruito un puzzle di battute originali dei film di Fellini inserite in una storia nuova e tua. Questo è possibile forse soprattutto perché “8 1/2” è un girotondo: tu hai cercato di mantenere questa struttura pur raccontando una storia diversa, oppure senti di aver dato una maggiore linearità?

Sì, entrambe le opere seguono un percorso chiaro, ma piuttosto differente. La trama non la fa particolarmente da padrone in “8 1/2” perché c’è un’espressività, un uso di immagini talmente forti che permette di mettere la trama in secondo piano. Per molte delle domande che “8 1/2” ti lascia sei costretto a darti una risposta da solo. Lascia una marea di spazio allo spettatore. Viceversa io, un po’ perché volevo mettere tante cose all’interno dello spettacolo ho vissuto la paura che lo spettacolo divenisse troppo caotico e quindi sentito la necessità di tirare un po’ le fila e dare una linearità. Chiaro che il continuo gioco di flashback e salti in avanti complica la vita allo spettatore: ma infatti volevo che il mio spettacolo fosse comunque il meno possibile didascalico. Mostrare qualcosa ma non annullare lo spazio del pubblico. La scena che preferisco è quando il regista vede tutto il film, che non riesce a girare, di fronte a sé. Lì sta al pubblico capire se quello che sta vedendo è il film per come lo vorrebbe il regista, il film per come verrà fatto o ancora se quello che sta vedendo è la sua vita.

A proposito di interpretazioni, “8 1/2” è stato spesso inquadrato, con ottime ragioni, come film maschilista: il punto di vista del protagonista è profondamente maschile, anche se di un maschilismo un po’ frustrato. Come ti sei approcciato a questo elemento, hai cercato un po’ di reinventarlo nel tuo protagonista?

Non ho voluto tradire il Guido Contini per come è nato. Perché può essere considerato un film maschilista “8 1/2”? Perché banalmente tutte le donne che vengono rappresentate all’interno del film cadono nel gioco di Contini. Il fascino dell’uomo insoddisfatto cronico che vuole tutto e non vuole nulla, che cerca qualunque strada perché ha paura di perdere quella giusta, e quindi incrocia le notti con tante donne. Conservando questo disagio c’erano delle operazioni che potevo fare per rendere “La dolce confusione” meno maschilista: metterci un personaggio che non cade nel gioco. Per questo c’è Beth Cohen, la Beth di DIVA’s. Lei può essere quasi un’icona femminista per certi versi: è una donna fortemente indipendente, una ragazza giovane che si è trasferita dagli USA alla Francia, che ha lasciato un lavoro di successo per sceglierne un altro, un fidanzato irrilevante su molte sue prospettive. Nel momento in cui si incrociano questi due personaggi appare evidente fin dal primo incontro che Beth non vuole cascare nel gioco di Contini per non farsi intrappolare in un vortice che crea infelicità: quello di un uomo che non sa voler bene e per questo finisce a fare del male a chi gli è vicino.

A inizio stagione mi avevi detto che questo spettacolo nasce anche dal tuo desiderio di chiudere dei cicli, e in particolare quello francesce con “Au Manoir Saint-Germain” e il citato “DIVA’s”. In particolare da “Au Manoir” riporti il divertente personaggio di Dorothy Millstein, fantasma che appare nel cielo, che a sua volta avevi tratto da un’idea di Woody Allen. Eri consapevole che stavi facendo incrociare Fellini e Woody Allen, peraltro con un personaggio che è estremamente onirico e felliniano?

Effettivamente è così, e confesso che mentre lo scrivevo non mi sono reso propriamente conto che stavo facendo in qualche modo incrociare questi due miti. D’altronde questa è sì la trilogia delle sorelle Cohen ma è anche la trilogia del cinema, colma di echi e rimandi dal mondo del cinema. Da Wes Anderson, ad Alexander Payne, citato moltissimo in DIVA’s. Effettivamente l’immagine onirica calzava alla perfezione, ed è vero che Woody Allen ha sempre messo Fellini tra i suoi registi preferiti, quindi nulla toglie che un’ispirazione originale possa esserci stata anche da parte. Come disse qualcuno, la vita è plagio più fantasia.

Questa è anche una trilogia nostalgica. Etimologicamente è noto che “nostalgia” significhi pressappoco “desiderio del ritorno”. Il che combacia col tuo desiderio del ritorno a Rimini. Fellini ripeteva che “8 1/2” è un film nostalgico ma non malinconico, men che meno depresso: come si rapporta “La dolce confusione” con la nostalgia?

“Amarcord” nasceva per Fellini da una necessità specifica: la visione di un posto, Rimini, dove è nato, è cresciuto ma da cui si è staccato perché da giovane se ne va per andare a lavorare in dei giornali a Roma. Fa Amarcord in una fase abbastanza avanzata della sua carriera, e Rimini viene idealizzata in una dimensione di cose perfette, nel bene e nel male e nel giusto e sbagliato. Un’idealizzazione di chi a Rimini, in realtà, non vive da tempo. Che è una cosa che naturalmente mi sono sentito dire anche io due anni fa. Ne “La dolce confusione” c’è una nostalgia che nasce dalla mancanza di un porto sicuro: quando il protagonista rientra a Rimini non sta rientrando in un luogo fisico ma in un immaginario che potrebbe essere il ritorno alla casa dei genitori, alla vita di infanzia. Questo spettacolo è la storia delle troppe scelte e quindi delle scelte mancate, e da qui nasce lo smarrimento e la malinconia per il passato.

In conclusione, una delle critiche che venivano fatte al protagonista di “8 1/2” era di essere un regista “tutto fare”. Come ti senti a dover recitare da protagonista in uno spettacolo che hai anche scritto e diretto?

La verità è che ho scritto questo lavoro per me. Sentivo la necessità di raccontare questa storia e sentivo tantissimo nelle mie corde il personaggio, nonostante un lavoro attoriale molto lungo, che sta richiedendo tanto tempo nel tagliare i miei “estremismi”. Se mi è sempre piaciuto interpretare personaggi barocchi in questo caso la mia recitazione sarà molto pacata, senza andare mai né sopra né sotto le righe, cercando quell'”oblio” che ha reso grande Mastroianni per gran parte della sua carriera. L’attore un po’ distaccato e malinconico, che non tirava mai fuori una verve eccessiva. Ho costruito inevitabilmente lo spettacolo sul protagonista, cercando di renderlo però un’opera corale nello stile dei Birbanti. Ho un pezzo cantato, minimamente ballato… e se devo dire come mi sento nel fare tutto questo nell’opera: mi fa parecchia paura.

 

 

 

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