Un secchione. Un atleta. Una reginetta. Un’emarginata.
I protagonisti di Jumanji – Benvenuti nella Giungla rientrano in quattro categorie di studenti che si possono trovare in qualunque scuola superiore. Ma come ci ha insegnato Breakfast Club – quello che probabilmente possiamo considerare IL film simbolo degli anni ’80 – spesso dietro questi stereotipi si celano individui ben più complessi di quanto le apparenze e le gerarchie sociali possano farci credere. Nel cult generazionale diretto da John Hughes questo processo di conoscenza reciproca e di accettazione della propria identità avveniva attraverso la convivenza forzata in un’aula dove i protagonisti venivano messi in punizione; lo stesso avviene in questo sequel, anche se durante la loro prigionia vengono risucchiati all’interno di un videogioco.
Se nel 1995 una giovane Kirsten Dunst e il suo fratello minore si sono ritrovati coinvolti in una partita a un pericoloso gioco di società, ora lo stesso concetto è stato modernizzato in chiave videoludica: i protagonisti non trovano una vecchia scatola di legno con intarsi tribali, ma un’antica console a cartucce proveniente dai lontani anni ’90. Questi elementi sono buoni segnali dai quali già trapela un’idea di sequel originale che omaggia il film originale senza replicarne la struttura in modo pedissequo: se nel primo Jumanji la giungla irrompeva in un ordinario quartiere residenziale americano, qui sono i giovani a viaggiare fino all’esotico universo sulla base del quale è stato costruito il gioco. La trama sviluppa molti elementi caratteristici dell’esperienza videoludica, come le abilità e debolezze di ogni personaggio (sfruttate dalla sceneggiatura in realtà in modo un po’ troppo didascalico), vite che permettono di continuare il gioco, personaggi non giocabili e una filosofia di miglioramento personale raggiunto tramite i molteplici tentativi e fallimenti.
L’idea vincente che rende Jumanji – Benvenuti nella Giungla una strepitosa action-comedy sono gli avatar: ognuno dei ragazzi inizia la partita scegliendo un personaggio, nel cui corpo si ritroverà una volta catapultato nel videogioco, dinamica che viene sfruttata al massimo giocando sugli opposti, con una grande efficacia sul piano umoristico. Il nerd Spencer è diventato il muscoloso archeologo Dott. Bravestone, dotato del possente fisico e del guizzante sopracciglio di The Rock, che dimostra grande autoironia nel giocare con l’immagine che si è costruito dopo decine di film. Il giocatore di football Fridge si trasforma nello zoologo Mouse interpretato da Kevin Hart, che per tutta l’avventura fa urletti acuti e si lamenta dei quaranta centimetri di statura in meno rispetto al mondo reale. L’introversa Martha diventa la combattente Ruby Roundhouse, un florilegio di girl power e autostima guadagnata grazie alle mosse letali della sexy Karen Gillan. La vanitosa Bethany tutta selfie e social si ritrova nel corpo sovrappeso del cartografo di mezz’età Sheldon Oberon, un Jack Black divertente come non lo vedevamo da anni.
L’originale Jumanji faceva sprofondare lo spettatore fin dal prologo nel senso di colpa provato dal giovane Alan Parrish per aver fatto fallire l’azienda paterna; qui inizialmente non abbiamo un sottotesto così profondo, ma nel corso dell’avventura spunteranno tanti piccoli drammi personali in grado di aumentare il valore di un film all’apparenza molto leggero. Ci sono un paio di collegamenti al film precedente ma non è un elemento troppo rimarcato; anche l’impronta action sembra passare in secondo piano, a causa di sequenze non proprio ispirate ed effetti speciali non all’altezza di un blockbuster odierno. Il regista Jake Kasdan ha esperienza soprattutto nel campo delle commedie ed è in questo aspetto che Benvenuti nella Giungla riesce a sorprendere, soprattutto nel finale dotato di una profondità inaspettata, considerando le premesse; ma proprio come ci spiega la morale non bisogna giudicare dalle apparenze, neanche un popcorn movie.