Fino all’anno scorso l’idea di produrre un musical cinematografico originale era folle, a meno che non si trattasse di un film d’animazione. Il pubblico odierno sembra avere una scarsa tolleranza per le storie dove “improvvisamente tutti si mettono a cantare e ballare” e quindi difficilmente qualcuno si assume il rischio di creare qualcosa di nuovo, limitandosi al massimo ad adattare sul grande schermo spettacoli teatrali di successo provenienti da Broadway o dal West End (anche se questi progetti e molti film Disney addirittura nei trailer “nascondono” il fatto che si tratti di un musical). Ancor più audace la scelta di affidare i testi delle canzoni a due cantautori pressoché sconosciuti, tali Benj Pasek e Justin Paul, e la regia all’esordiente Michael Gracey. Saranno necessari 7 anni prima dell’inizio delle riprese di The Greatest Showman, periodo nel quale il film trova il suo più grande sostenitore in Hugh Jackman, scelto per interpretare il ruolo principale; l’attore è consapevole che si tratta di un ruolo cucito su misura per lui, in grado di far brillare al massimo il suo talento nel musical. Al cinema infatti la star australiana ha raggiunto la popolarità con Wolverine, ma la sua carriera è iniziata sulle assi del palcoscenico interpretando Gaston ne La Bella e la Bestia Disney e il protagonista di altri musical (Oklahoma!, The Boy from Oz); Hollywood ha reso giustizia alle origini della sua carriera facendogli interpretare qualche anno fa Jean Val Jean in Les Miserables, uno dei ruoli più ambiti dai performer di tutto il mondo, ma l’atletico Jackman voleva cimentarsi in un ruolo virtuoso nel quale poter recitare, cantare e ballare.
L’occasione si presenta grazie al personaggio di P.T. Barnum, lo showman che nel 19esimo secolo ha rivoluzionato il mondo del circo radunando un cast di freak in grado di attirare milioni di spettatori. Uno dei principali motori della pellicola è proprio il cast: è evidente quanto tutti gli attori credano in questo progetto e diano il massimo, come si può constatare anche dalle performance dei due brani From Now On e This is Me realizzate durante il workshop di presentazione del musical ai finanziatori, dove è palpabile la passione infusa nell’interpretazione di ogni singolo artista coinvolto. Fortunatamente questo aspetto è rimasto anche nelle riprese del film ed è evidente dal prodotto finale.
Bisogna dire però che il film arriva nelle sale quando il pubblico di massa ha “ammorbidito” la sua posizione nei confronti dei musical grazie all’uscita di La La Land, con cui proprio Pasek e Paul hanno vinto un premio Oscar per la canzone City of Stars. Non aspettatevi però un’altra colonna sonora jazz: si parla sempre di sogni da realizzare, sacrificio, compromessi tra la carriera artistica e la vita privata, ma tutto è più pop, dalle musiche alle atmosfere con cui viene messa in scena la storia. Tra l’altro lo stesso spunto di partenza era già stato adottato dal musical teatrale Barnum del 1980, qui però ignorato per dare vita a un’opera completamente originale.
I brani musicali sono senza dubbio la carta vincente di The Greatest Showman, grazie a coreografie che strizzano l’occhio a Bob Fosse e all’ispirato utilizzo della computer grafica, in grado di far ballare dei lenzuoli stesi ad asciugare assieme ai protagonisti. Le melodie sono orecchiabili e molte canzoni sono giocabili come “singoli”; questa caratteristica purtroppo viene sottolineata durante il film, con una messa in scena che interrompe la narrazione per avvicinarsi invece al videoclip musicale. Nel genere musical la canzone dovrebbe essere una naturale prosecuzione ed esplosione dell’emozione che si stava già raccontando, e infatti quando quando questo avviene in modo fisiologico si hanno come risultato alcune delle scene più efficaci del film, A Million Dreams e The Other Side. Ma anche se c’è una sospensione del racconto, impossibile non essere travolti dall’energia di brani come The Greatest Show e Come Alive, veri e propri inni la cui potenza sopravvive alla visione della pellicola.
C’è però una grave pecca che mina la visione di The Greatest Showman, ovvero la sua sceneggiatura. La figura di Barnum è complessa, meritava un trattamento più profondo, ma l’approccio scelto è superficiale, rifiutando di esplorarne gli aspetti più controversi. Ci sono scene in cui vengono suggeriti grandi problemi, inquadrature che lasciano presagire reazioni forti da parte di alcuni personaggi, ma poi questi elementi svaniscono come una bolla di sapone e si prosegue con una biografia nella quale le ombre vengono volutamente messe da parte dopo essere state -chissà perché, ci chiediamo a questo punto- appena accennate. Tutti i componenti del circo vengono rappresentati come un unicum indistinto, non ci si sofferma a caratterizzarli singolarmente nelle proprie individualità, ed è un peccato perché avrebbe potuto essere la strada più semplice per rendere ancor più emozionante il film. L’unico personaggio del gruppo su cui il copione si sofferma è la trapezista interpretata da Zendaya, che però non capiamo con quali motivazioni sia classificata da tutti come freak (è forse sufficiente una parrucca rosa indossata durante gli spettacoli?); la sua storia d’amore con Zac Efron non brilla di certo per originalità, ma riesce a evitare di scadere nella retorica grazie a qualche sequenza evocativa.
Nonostante questo grande difetto, si esce dal cinema carichi ed entusiasti per la messa in scena spettacolare, nel senso più profondo del termine, anche se questo va a discapito di una narrazione più raffinata. Considerando inoltre che per il regista Gracey si tratta di un esordio sul grande schermo, alle prese con un kolossal da 84 milioni di dollari… bè, tanto di cappello a cilindro.