Qualche giorno fa stavo parlando con uno degli architetti senior del mio studio; lui si occupa di seguire i clienti del lusso, principalmente russi. Mi stava raccontando di come un giorno uno di questi clienti sia venuto a fare una visita a Milano, esprimendo il desiderio di visitare dell’arte contemporanea italiana. Con grande sforzo il mio collega è riuscito a organizzare una visita a una collezione privata di uno dei palazzi più sfarzosi di Corso Venezia (a buon intenditore poche parole). Il cliente in questione si presenta con le classiche accompagnatrici da battaglia di rito. Durante la visita si ritrovano davanti a un quadro di Lucio Fontana, non un quadro qualsiasi, uno dei suoi celeberrimi concetti spaziali, ovvero una tela monocromatica squarciata da un unico solco verticale al centro. Il cliente si è fermato. Come folgorato ha osservato l’opera, completamente rapito dalla sua contemplazione. Ad un tratto, ridestandosi dalle sue elucubrazioni, si gira verso il suo entourage, abbozza un sorrisetto e muove la mano portandola rivolta all’insù all’altezza della vita, chiude tutte le dita a pugno meno indice e medio, e con fare grottesco inserisce le dita nella fessura della tela, mimando una smorfia decisamente rubata ad un set di cinema pornografico.
È molto bello che, nonostante la evidente e catastrofica mancanza di educazione del soggetto in questione, questi sia riuscito a capire quello che Fontana in realtà ci vuole dire. Lasciando stare per un momento la forma decisamente di stampo ginecologico del taglio, il concetto di creare un varco in una superficie solida ci suggerisce l’esistenza di altri mondi, insondabili se si prova ad affrontarli col paradigma con cui siamo abituati a relazionarci con le cose di tutti i giorni. Che poi alcuni soggetti ci vedano delle vulve, e che la prima cosa che gli viene in mente di fare è infilarci delle dita mi sa che rientra nel fatto che per fortuna non siamo tutti uguali e il mondo è bello perché è vario.
Questa amena storiella per raccontarvi che ormai da un bel po’ ha aperto una mostra su Lucio Fontana all’Hangar Bicocca di Milano. Ne scrivo solo ora perché ho ripetutamente provato a visitarla nei weekend, ma è stata letteralmente assalita da orde di visitatori, che mi hanno fatto spesso desistere dai miei intenti.
Se siete tra i pochi che ancora non l’hanno vista, probabilmente non sapete che questa mostra si distacca dal panorama classico delle mostre dell’artista perché si concentra su una sua produzione molto di nicchia e molto poco trattata nelle sue retrospettive: la produzione di ambienti spaziali.
Questi ambienti sono delle situazioni, non per forza stanze chiuse, in cui Fontana inserisce degli elementi, per lo più luminosi, in grado di alterare la normale percezione dello spazio. Vediamo così un enorme filamento di luce al neon che si attorciglia su sé stesso, evidenziando linee dinamiche inattese; stanze con luce ad ultravioletto che fa brillare oggetti di forme indefinite e un poco inquietanti nonché le stringhe delle vostre scarpe (se bianche ovviamente), ambienti neri con cieli stellati di puntini luminosi, stanze illuminate di rosso con elementi divisori labirintici e via così.
Si tratta di esperimenti che Fontana faceva per sondare la nostra percezione dello spazio; esattamente come nel caso della tela squarciata, crea una situazione a noi familiare per indirizzarci verso sistemi di pensiero consolidati dentro di noi, per poi inserire elementi inattesi che spezzano questi sistemi. Un po’ come quando per tutta la vita hai mangiato gli agnolotti in brodo senza formaggio, e non ti è mai venuto in mente che il formaggio grattugiato potesse stare su una minestra liquida, ma poi incontri qualcuno che te lo fa provare, e capisci che tutto quello che prima ritenevi una certezza adesso è messo in discussione.
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