Ci sono istinti innati nell’uomo: troveremo molte più informazioni sulle origini del calcio osservando un bambino che prende a pedate un sasso mentre cammina, che cercando in qualche fonte storica. Pare infatti che gli uomini abbiano da sempre giocato a calcio. Se poi consideriamo che quel mestiere lì è il più antico del mondo, che le prime testimonianze certe sulla birra risalgono al 3100 a.C. (Egitto), ci accorgiamo che, decisamente, tutto torna: viviamo in un mondo maschilista.
Ma andiamo con ordine. Nell’antichità giochi simili al calcio, anche se molto più violenti e istintivi, erano praticati da militari; spesso il gioco faceva addirittura parte dell’addestramento. E’ il caso del tsu-chu (letteralmente “palla spinta coi piedi”) ideato dall’imperatore cinese Xeng Ti circa 2500 anni prima di Cristo. I militari si dividevano in due squadre e il loro scopo era quello di far passare un pallone di cuoio attraverso due pali piantati nel terreno. Un esperimento decisamente simile al nostro gioco più bello del mondo. In Giappone si sviluppò il kemari, con la principale differenza che i giocatori potevano usare tutte le parti del corpo. Nel I sec. a.C., in Grecia si pratica l’epìskyros, dove due squadre di 15 giocatori l’una si contendono il possesso di una vescica di bue gonfiata coll’aria. Sempre meglio dello “Jabulani”, per chi se lo ricorda, e d’altra parte il pallone era comunque già stato inventato anche in occidente: lo testimonia un basso rilievo del V sec. a.C. conservato al Museo archelogico nazionale di Atene. I legionari di Giulio Cesare amavano praticare l’harpastum, altra disciplina brutale attraverso la quale venivano anche simulate strategie e tattiche militari. Dall’harpastum deriva il medievale soule praticato dai celti romanizzati. Arriviamo così a un antenato di importanza cruciale: il calcio fiorentino praticato in Piazza Santa Croce dal ‘500.
L’Inghilterra si è sempre definita “patria del calcio”. Abbiamo mostrato come gli inglesi in realtà non abbiano inventato nulla. Hanno però avuto grandi meriti: sono stati i primi a organizzare il gioco in delle regole; sono stati i primi, fin dal ‘800, a creare attraverso i college delle reti attraverso le quali il football potesse diffondersi. Il bisogno di regole certe e condivise nacque soprattutto quando si vollero organizzare le prime sfide fra college diversi. Ma il processo per arrivare al regolamento fu molto lento; in una lunga fase iniziale regnavano la confusione e l’improvvisazione. Importante fu il tentativo di Thomas Arnold, rettore dal 1828 al 1840 dell’università di Rugby, nell’Inghilterra del Nord. Fino ad allora il calcio era stato pura vivacità e istinto, un gioco che nasceva dalla voglia di lottare. Le “sfumature” sulle regole erano le stesse dalla notte dei tempi: i giocatori possono o no prendere la palla con le mani? Fino a che punto può essere considerato regolare lo scontro fisico? Trovate le dimensioni della porta bisognava anche collocare una traversa? Queste e tante altre domande trovarono risposte solo temporanee: furono provati diversi regolamenti (e questa fu la grande rivoluzione) ma non si trovò mai una sintesi accettata da tutti. Un ordine relativo che però permise la nascita del primo club della storia: lo Sheffield.
La data fondamentale è quella del 26 Ottobre 1863: alla Freemason’s Tavern di Londra si riuniscono tredici uomini in rappresentanza di undici società tra cui Eton, Westminister e Harrow. Le cronache parlano di una splendida giornata di sole, ma all’interno della taverna avvenne la grande rottura decisiva. Non si trovò ancora una soluzione unica e così nacquero due diverse organizzazioni che avrebbero cambiato per sempre lo sport: il calcio e il rugby. Negli anni successivi alcune grandi modifiche: nel 1871 (in concomitanza con la prima FA Cup) il portiere è autorizzato a toccare la palla colle mani, nel ’75 compare la traversa, nel ’77 è stabilito che le partite abbiano durata di 90 minuti e una squadra debba avere 10 giocatori più il portiere (probabilmente perché questo era il numero di studenti ospitati in ogni camerata di college). Nel 1886 a Londra è istituita l’IFAB, organismo che detterà le 17 regole fondamentali che sono ancora alla base del nostro calcio. Il calcio si diffonde così dall’Inghilterra in tutto il mondo attraverso il mare.
I marinai portano sempre con sé palloni di cuoio e diffondono la loro passione. Le cronache dicono che nel 1874 ci furono le prime partite fra marinai inglesi e brasiliani sulle spiagge del Brasile. In Italia il calcio arriva, com’è logico, attraverso Genova e sempre per mano degli inglesi. Ancora oggi l’allenatore è chiamato “Mister” perché i marinai genovesi erano soliti rivolgersi in questo modo ai primi allenatori inglesi che insegnavano il gioco. Negli Stati Uniti, ad Harvard invece accadde qualcosa di diverso. I tanti studenti inglesi stavano diffondendo il calcio ma le autorità della più importante università del mondo lo vietarono. Troppo popolare e disordinato. Rimase il rugby, scelto perché aveva conosciuto una diffusione meno esplosiva e più elitaria: lo fecero loro e lo trasformarono nel football americano. E’ la scelta che per un secolo taglierà fuori il calcio dagli Stati Uniti
Le squadre giocavano in un modo che oggi sembra impossibile. Il modulo utilizzato era una sorta di 1-1-8. Ancora più assurdo lo stile di gioco: non era contemplata la possibilità di passare la palla. Anzi, era ritenuta una forma di debolezza. Il gioco era un continuo passare da una mischia all’altra: appena la palla capitava fra i piedi si ripartiva in una corsa solitaria verso la porta avversaria. Fino alla mischia successiva. Era il cosiddetto dribbling game. Pensandoci, è il modo di giocare più naturale e istintivo, è il modo in cui giocano i bambini. La grande rivoluzione arrivò dopo la prima partita internazionale: Scozia-Inghilterra, giocata a Glasgow (anno 1872, uno 0-0 considerato un grande successo dalla nazionale di casa). Gli scozzesi erano più deboli e minuti fisicamente; capirono che l’unica possibilità era superare gli avversari attraverso dei passaggi. Si arrivò quindi a un’altra dimensione, il passing game. Fu per la prima volta evidente che per un calcio ragionato, ricercato il passaggio era una necessità imprescindibile. Fu la rivoluzione. Il gioco dei passaggi rese per la prima volta di tutti uno sport che per violenza e individualismo sembrava appartenere a pochissimi. In parallelo si trasformò culturalmente passando dalla dimensione elitaria dei college a quella operaia delle fabbriche. Si cominciò a giocare a calcio in tutte le periferie industriali. Un impulso forte in questa direzione si ebbe dopo il 1860, quando gli operai ottennero il sabato pomeriggio libero. Ovunque cominciarono a sorgere campi da calcio intorno alle parrocchie e dietro i pub. Prima delle partite si pregava, dopo le partite si beveva assieme. Con gli anni ’60 del ‘800 nacquero i primi veri club aziendali. Il Manchester United è la squadra dei ferrovieri, il West Ham è finanziato dal signor Arnold Hills, proprietario delle acciaierie Thames Ironworks. Il mondo ha trovato uno sport che diventerà presto il gioco di tutti.
Il calcio conobbe uno sviluppo verticale che va avanti ancora oggi e che, per diverse ragioni, sarebbe stato inarrestabile. Alla prima finale di FA Cup (’71) ci furono duemila spettatori, nel 1888 furono diciassettemila, nel 1893 furono quarantatremila e all’inizio del XX secolo (1901) addirittura centomila. Qualcosa di incredibile. Nel nostro tempo, circa 140 anni dopo quella prima finale di Coppa d’Inghilterra, la crescita continua ad essere esplosiva grazie alla diffusione dei media. Il Mondiale di Germania 2006 fu l’evento più seguito della storia della televisione. Le partite sono state trasmesse in un totale di 214 paesi per un totale di oltre 26 miliardi di spettatori: quattro volte e mezzo gli abitanti della Terra. Alla finale assisterono un miliardo e 200mila persone. Il Centre for Economics and Business Research ha valutato che il giro di affari fu di circa 25 miliardi di dollari. I prossimi Mondiali in Brasile* sicuramente miglioreranno ancora questi numeri. Cifre da capogiro, che tuttavia non riescono a quantificare quello che ormai è un rito del mondo.
Zeman disse: “La grande popolarità che ha il calcio nel mondo non è dovuta alle farmacie o agli uffici finanziari, bensì al fatto che in ogni piazza, in ogni angolo del mondo, c’è un bambino che gioca e si diverte con un pallone tra i piedi”. Credo che abbia colto l’essenza. Le ragioni del perché amiamo il calcio potrebbero essere decine. Ma penso che in fondo sia quel bambino che gioca in una piazzetta che, dentro, ci fa impazzire.
* Articolo pubblicato originariamente il 15 novembre 2013