Il 21 luglio è uscito il suo nuovo album, Lust for Life. A vederla sorridente in copertina non sembra nemmeno lei, così distante dall’immagine un po’ cupa cui ci ha abituati.
Lana del Rey canta la fine del sogno americano, lo smarrimento di una generazione, in un album, il quarto in cinque anni, condito da collaborazioni eccellenti (Sean Lennon, Stevie Nicks, solo per citare alcuni nomi).
Born to die, l’album del suo sfondamento, rimane ineguagliabile sia per le tematiche trattate, per nulla banali, sia per la presenza di brani di assoluto livello come video games, born to die, blu jeans, summertime sadness.
Quando uscì nel 2012, Rolling Stone scrisse che “Born to die era un album così diverso dai dischi pop a cui eravamo abituati. Parla di relazioni distruttive, perversioni, masochismi e flirta sfacciatamente con la morte. Ma non sono solo i testi e i video patinati che accompagnano i singoli Born to Die e Blue Jeans, a turbarci e deliziarci. Anche quello che sentiamo ci stupisce: sonorità inedite che pescano dal passato, parole ammorbidite dalla polpa gommosa delle labbra rifatte, voce camaleontica”.
Lust for life non lascia delusi, e conferma la sua maturità artistica. Colpiscono in particolare alcune tracce, come God Bless America, Beatituful people, beatiful problems, When the world was at war.
Lana del Rey è un enigma vivente che sfugge ad ogni etichetta. La sua musica appartiene ad un genere a metà tra l’indie rock e il pop; la voce, il suo vero marchio di fabbrica, pastosa e dolente, pare provenire da un’altra dimensione; e poi quell’immagine retrò e naif, più acconcia ad una diva anni 60 che ad una ragazza di trent’anni.
Sembra uscita da un film di Tim Burton o da una serie di David Lynch (il New York Times l’ha recentemente accostata proprio a quest’ultimo). I suoi video esprimono compiutamente un immaginario onirico, abbondano le citazioni kennediane, scorci di un’America che non esiste più.
È tormentata, ammaliante nel vero senso della parola. C’è qualcosa in lei di inspiegabile, che la rende così intrigante, irresistibile, magnetica.
I detrattori sostengono che Elisabeth Woolridge – questo il suo vero nome – non sappia cantare, la accusano di essere un prodotto commerciale, inconsistente e fatua. È vero che la sua voce si presta più ad una sala di registrazione che a un palazzetto (dal vivo non brilla, difetta di potenza, le stonature sono frequenti). La sua prima vera esibizione, al Letterman Show, fu disastrosa. Ma Lana del Rey non è un mero prodotto di marketing (alla stregua di una Lady Gaga); è una cantante che, per quanto inafferrabile, ha una voce e uno stile inconfondibile.
In un panorama femminile americano, dominato dal piattume pop di star come Rihanna, Katy Perry, Taylor Swift et similia, di artiste come Lana del Rey c’è invece un gran bisogno.
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