Se già il concetto di postmodernismo aveva sollevato, e solleva tutt’ora, profondi dibattiti, ancora prima della pubblicazione del celebre saggio di Lyotard, non ha sortito effetto diverso la letteratura postmoderna, nell’arco di una lunga, pretesa continuità che cominciava nel secondo dopoguerra e arriva fino ai giorni nostri.
Restringendo il campo sulle grandi manifestazioni letterarie più attuali, possiamo individuare facilmente gli autori più importanti che abbiano raccontato il mondo che si preparava al nuovo millennio. Per limitarci ai grandi narratori americani dei nostri giorni spiccano nomi fra i più noti (gli eterni candidati a un premio Nobel mai raggiunto, almeno finora) e temi comuni che portano a visioni del mondo convergenti. Il bombardamento informativo, la paranoia, la caduta dei miti e delle religioni, la sfiducia per ogni governo, il relativismo, i media alienanti…
Le trame risultano complesse, frammentate, e acquistano senso soprattutto nelle divagazioni. Così, lasciando da parte il più novecentesco capolavoro di Thomas Pynchon (L’arcobaleno della gravità), vedono la luce a pochi anni di distanza Infinite Jest di David Foster Wallace, sul mondo drogato di un futuro prossimo ma non lontano; poi Don De Lillo, con Rumore Bianco, sulla cospirazione e con il colossale e celebrato affresco Underworld; o ancora i due principali capolavori di Philip Roth: La macchia umana, sulla paranoia del politicamente corretto, e Pastorale Americana, ancora più premiato. Tutti fra la seconda metà degli anni ’90 e il 2000.
Eppure resta da raccontare un’ulteriore piega presa dalla storia in questi anni. Una letteratura della globalizzazione matura, del XXI secolo. Se l’ultimo grande avvenimento che aveva segnato i titoli citati era stato lo scandalo sessuale di Bill Clinton ( ne La macchia umana) possiamo immaginare il ruolo ben maggiore che dovrebbero coprire gli attentati dell’11 settembre: i nemici, interni ed esterni, il rapporto con l’Islam e l’islamismo. Titoli significativi da questo punto di vista sono arrivati, in diverso formato, da Mohsin Hamid (Il fondamentalista riluttante, Le civiltà del disagio…) nonché da Michel Houellebecq, col celeberrimo Sottomissione, che tanto ha fatto parlare di sé per via dei noti attentati di Charlie Hebdo.
Siamo però ancora per lo più nel campo del patologico, del distopico. Restava per la letteratura la sfida importante di raccontare il declino della nostra normalità, la crisi dell’occidentale tipico. Il rovesciamento delle nostre tranquille certezze attraverso gli inaspettati rivolgimenti politici del 2016: la Brexit e la vittoria di Donald Trump. Eventi che hanno spinto poi una moltitudine di analisti ad analizzare ex post (come spesso capita) una realtà lievitata all’oscuro dei loro riflettori.
Ecco allora perché ha destato tanto interesse l’emergere di un nuovo, giovane scrittore: J. D. Vance, con Elegia Americana, racconta proprio la vita dei cosiddetti sconfitti dalla globalizzazione. Titolo ancora più chiaro se letto nella sua versione in lingua originale: Hillbilly Elegy, dove “Hillbilly” sta per “montanaro, campagnolo”, in accezione dispregiativa. Segnalando una delle più importanti spaccature non solo della società americana: quella fra “città” e “campagne” (ancora più importante di quelle fra centro e periferie, e spesso perfino di quelle di reddito). Adesso il libro viene elogiato da testate come L’Economist come il miglior romanzo per cogliere l’essenza della vittoria di Trump. Ma il suo merito fu quello di uscire diversi mesi prima, arrivando palesemente là dove i giornalisti spesso non erano andati.
Il che conferma che abbiamo sempre bisogno di una letteratura capace di cogliere lo zeitgeist, lo spirito del nostro tempo, soprattutto in tempi di superficialità mediatica. La riflessione resta lo strumento necessario per dare un valore alle informazioni che riceviamo, rielaborandole, e la letteratura resta un insostituibile strumento di riflessione.
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