“Profe, este tiene la cara de borracho, por favor…”
(Mister, questo ha la faccia da ubriacone, per favore…)
Si dice che siano stati gli inglesi ad inventare il calcio, ma che siano stati gli argentini a creare la passione per il calcio. Fin dai primi nel ‘900, l’Argentina si innamora del calcio e il calcio si innamora dell’Argentina. Il pallone viene calciato a ritmo di tango, prima rallenta e poi parte veloce, ha un breve sussulto prima dell’acuto finale che lascia senza fiato ma con la consapevolezza di quanto sia romantico il momento. A partire dagli anni ’70, questo modo di giocare che gli argentini chiamano “La Nuestra“, è pian piano sparito, battuto da un’etica del risultato che mette il talento ai margini e non più al centro del gioco.
Questo è successo ovunque, ma non a Buenos Aires. Anzi più precisamente non nel Barrio Parque Patricios. Non nel 1973. Non in una squadra ben precisa: il Club Atletico Huracan. Il barrio Parque Patricios è considerato l’ultimo quartiere della capitale, e per questo è rimasto sempre uguale a se stesso, nonostante la sua architettura sia molto cambiata negli anni. E’ un quartiere che ha sempre tenuto vivo lo stile di vida Bohemia, uno spirito anticonformista. In questo quartiere è nato, per iniziativa di un gruppo di studenti il 25 maggio 1903, il Club Atletico Huracan. Inizialmente doveva chiamarsi “Verde Esperenza y nunca pierde”; quando i ragazzi si recarono in una cartoleria per ordinare il timbro con il nome della squadra, il proprietario del negozio gli fece notare che questo era decisamente troppo lungo. Proprio alle spalle c’era un poster con la scritta “Huracan”, che i ragazzi decisero di affittare come nuovo nome.
La squadra non ha mai avuto grandi successi, rimanendo a livello amatoriale fino agli anni ’30, quando poi divenne professionistica. L’anno in cui però entro di diritto nella memoria calcistica del paese è il 1973. Dal 1971 sedeva sulla panchina della squadra Cesar Menotti, l’uomo che poi nel 1978 avrebbe condotto l’Argentina al primo dei suoi due titoli mondiali. Dopo due anni di bozze, nel ’73 la sua opera d’arte fu completa. Ma fu necessario aggiungere alla sua tavolozza di colori una miscela unica, che non aveva nessuno in quel paese. Una miscela fatta di talento purissimo, un dribbling illuminante e tanta, ma tanta, passione per gli alcolici. In due parole: Renè Houseman.
Nato a La Banda, una comunità di 95.000 persone, muove i suoi primi passi con la casacca dei Defensores de Belgrano. Menotti si imbatte in lui, e decide di portarlo al Parque Patricios. Quando presenta il giovane ragazzo ai compagni di squadra, le espressioni sono tutt’altro che entusiaste: “Mister, quello ha la faccia da ubriacone, ma per favore…”. Era vero, Housemann non solo era un grande bevitore, ma era anche un amante delle Gitanes, delle bestie di catrame che andavano forte tra i fumatori incalliti di quegli anni. Ma sapeva giocare a pallone. Giocava all’ala destra, ed era in grado di sprigionare un sentimento di gioia purissima in chiunque lo vedesse giocare. Trovava sempre il modo di far andare a casa il pubblico felice, aveva sempre lo spettacolo come primo scopo. Ben preso non solo i tifosi dell’Huracan, ma tutti gli argentini che avevano nostalgia della “Nuestra” lo elessero proprio idolo. El Grafico, giornale dalla grande influenza che non perdeva occasione per ricordare la passione per il talento che andava sparendo, lo definì “El campeon al que todos debemos aplaudir“. Renè Houseman, per tutti, abbastanza comprensibilmente, “El Loco”.
A Houseman piaceva bere, e la fama e gli apprezzamenti non erano neanche andati vicini ad allontanarlo dal suo primo amore. Menotti spesso prima delle partite, quando non si avevano notizie di lui, lo andava a cercare di persona. Molte volte lo ritrovava nel campetto di calcio vicino a casa sua, dove Renè giocava infiniti tornei, nonostante fosse un giocatore professionista. Successe anche prima della partita decisiva per il titolo del ’73 contro il River Plate. Housemann si era dato molto da fare nei vari bar della città, dormendo praticamente niente e bevendo praticamente tutto. La mattina era uno straccio, da buttare. Nel pomeriggio però, si sarebbe giocato contro il River Plate. Menotti questa volta non andò di persona a cercarlo, mandò i suoi collaboratori. Lui era impegnato a trovare il modo di rendere presentabile Houseman, perché non si poteva proprio fare a meno di lui. Dodici docce ed ettolitri di caffè. Houseman stava in piedi, era già qualcosa. Il suo dondolio rendeva ancora più difficile per i difensori comprendere i suoi movimenti, probabilmente perché non erano chiari neanche a lui. Houseman riuscì anche a fare gol (che poi lui stesso, una volta resosi conto, ha definito “Un golazo, modestamente”). Subito dopo che la palla attraversò la linea di porta, René cadde a terra in una risata di tutto gusto. Poco dopo lasciò il campo, andando direttamente a casa, dove dormì per un giorno intero. Lui dormiva, mentre i tifosi dell’Huracan per strada cantavano: “Y Chupe Chupe Chupe. No deje de chupar. El Loco es lo mas grande, del futbol nacional”. La Nuestra è anche questo. Decidere un campionato da sbronzo.
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