Chi non ha mai letto niente di Jorge Luis Borges ha un grande privilegio, da non sprecare: poterselo godere appieno, senza memorie che addormentano lo stupore, sperimentare il primo incanto che semina aspettative per le letture successive. E’ un autore che necessita ricerche e presentazioni, perché sa essere suadente e immediato ma anche ostico, ricorrendo a didascalismi estenuanti. Può sintetizzare teorie filosofiche astruse così come raccontare emozioni universali talmente discrete da essere riconosciute solo nel momento in cui si leggono.
E’ universalmente considerato un pilastro della letteratura del ‘900, ha influenzato decisivamente una quantità incalcolabile di autori successivi, da Calvino a Pynchon, è entrato come personaggio nel più noto romanzo di Umberto Eco, è citato come il più assurdo premio Nobel mai conferito. Per lui, come per pochi altri, è stato coniato un aggettivo: borgesiano. Eppure ci sarebbe da dibattere sul significato da attribuire realmente a questo termine. Una prima accezione fa riferimento alla mistificazione, al falso spacciato per vero, se non addirittura alla menzogna. Un’altra più nobile privilegia le sue atmosfere, i mondi labirintici, i personaggi fantastici che incontrano destini mitologici.
Eppure entrambe queste concezioni non colgono la vera essenza di Borges. I suoi scritti seguono un’ispirazione più profonda delle scalinate impossibili di Escher, uno sterile rompicapo o un gioco di specchi. Crea mondi impossibili perché così può scomporre la realtà, allo scopo di coglierne il funzionamento nascosto, con lo spirito del bambino che smonta il giocattolo, o ancora meglio del poeta che osserva.
Le finzioni di Borges sono paradossalmente ricerche di assoluta autenticità: come ha scritto efficacemente Magris “l’incanto di un attimo in cui le cose sembra stiano per dirci il loro segreto”. Eppure l’argentino non conosce verità rivelate. Come ripeterà lui stesso a Costanzo Costantini: “Non sono né un filosofo, né uno scienziato, né un teologo, sono semplicemente uno scrittore. Non ho una mia teoria del mondo”. Borges è profondamente agnostico: una cultura sterminata, un’intelligenza penetrante, eppure non fornisce mai risposte definitive. Al contrario, le sue invenzioni sono una continua domanda, un continuo incanto, un continuo mischiare le carte lasciandoti l’intuizione che la combinazione uscita non sia altro che un ordine segreto.
Predilige i racconti brevi, diffida dei romanzi, proprio perché ama l’essenziale: come spiega nel prologo delle sue Finzioni, è del tutto inutile “dilatare in cinquecento pagine un’idea la cui perfetta esposizione orale richiede pochi minuti”. Ecco perché è preferibile fingere che un libro esista già e limitarsi a commentarlo; da qui il suo noto espediente delle recensioni impeccabili di libri inventati.
Ama impersonare le vittime (Il miracolo segreto), il carnefice (Deutsches Requiem) o confonderli nella stessa persona (Emma Zunz, Il giardino dei sentieri che si biforcano) riuscendo a trovare per ciascuno una diversa sensibilità e una diversa ragione che trascende il concetto umano di “giustizia”. Perché la giustizia vorrebbe essere assoluta mentre Borges, svelando quanto sia puerile quel tentativo, cerca sempre di raccontare il relativo, l’attimo. Anche a costo di dilatarlo, di fermare magicamente il tempo, stravolgere qualcosa e poi rituffarsi nell’ordine costituito.
Attraverso i suoi temi ricorrenti ama descrivere microcosmi che diventano macrocosmi, dettagli che celano divinità minori, miracoli istantanei che accadono nei momenti più terribili. E che non comportano un banale lieto fine, ma un significato nuovo, purificatorio, di quella stessa realtà. A questo scopo sceglie spesso situazioni estreme: omicidi, condanne a morte, prigionie, mondi alienanti, inseguimenti, attese angoscianti.
Talvolta inventa mondi per criticare filosofie o sistemi politici: come nel primo racconto delle Finzioni, in cui critica l’idealismo e i totalitarismi o ne La lotteria di Babilonia, in cui denuncia in via metaforica l’anarchia. Rifugge da questi due estremi per lo stesso agnosticismo che è anche politico: un cultore dell’individualità, della complessità del reale, non può per sua natura tollerare la semplicità soffocante di un’eguaglianza imposta. E l’anarchia, la casualità assoluta, spersonalizzerebbe gli uomini tanto quanto il totalitarismo. Questo naturalmente senza mai pretendere di offrire un suo perfetto modello di società.
Borges non rifugge l’assoluto, ma da quel confronto non arriva una conquista trasmissibile. Racconta di uomini che raggiungono l’illuminazione, come ne La scrittura del dio (L’Aleph), ma questa si rivela perfetta accettazione dell’esistente, una formula dell’onnipotenza che stravolgerebbe il mondo e che però volutamente non verrà mai pronunciata. Affronta esplicitamente il tema dell’universo in un racconto fondamentale: La biblioteca di Babele. Qui troviamo forse il suo labirinto più straordinariamente architettato; una biblioteca impossibile che diventa metafora della realtà sterminata, imperscrutabile e della condizione dell’uomo che la abita. Di una perfezione anteriore all’essere umano, in cui questi si ritrova ma che non sa interpretare, nonostante i suoi sforzi. Ma il protagonista va oltre la sua limitatezza: “Io mi arrischio a insinuare questa soluzione dell’antico problema. La biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore l’attraversasse in qualunque direzione, verificherebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine). Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine”.
La poetica borgesiana è l’accettazione di una complessità perfetta attraverso lo stupore incantato di quella stessa perfezione.
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