L’estate di Muccino, tra leggerezza e profondità

L’estate di Muccino, tra leggerezza e profondità

“La vita è troppo breve per non essere felici”, in questo aforisma si riassume il nuovo film, il decimo, di Gabriele Muccino.

L’estate addosso” è un film originale, che scorre piacevolmente per quasi due ore; un film che, come sempre nelle opere di Muccino, è sospeso tra leggerezza e profondità. C’è la spensieratezza dell’estate, la malinconia che segue la sua fine; una critica spietata alla società americana e al suo consumismo sfrenato; e, al centro del film, un tema impegnativo come le relazioni omosessuali e l’omofobia (dissento però dal regista quando afferma che in Europa questa è maggiore che in America). E poi torna uno degli stilemi mucciniani, quello che ormai è un vero e proprio leitmotiv, la ricerca della felicità intesa come aspirazione al realizzarsi dei propri sogni e obbiettivi.

Due ragazzi, ex compagni di liceo che non si sopportano, sono costretti dalle circostanze a trascorrere un’estate insieme in California. Ad ospitarli è una coppia di ragazzi gay (ma loro questo non lo sanno). Lei è scostante, superba, codina (ma alla fine del film avrà superato i suoi pregiudizi). Lui il classico adolescente insicuro e un po’ bamboccione.

La vacanza americana sarà l’occasione per fare nuove esperienze, per innamorarsi, e mettere in discussione se stessi, in una parola: per crescere.

Se dovessi incasellare il film in un genere direi quindi che si tratta di un “film di formazione“.
L’estate addosso echeggia alcuni lavori passati di Muccino. La canzone che si sente all’inizio del film è la stessa di “Ricordati di me“; il cane che compare nel film, un Golden retriever, è simile a quello presente nel già citato film del 2003.

Da una trama semplice e apparentemente banale, come una storia adolescenziale, Muccino riesce a ricavare un film interessante, che emoziona toccando i sentimenti più profondi dello spettatore – che poi è la principale qualità di Muccino. Per usare un’espressione molto retorica e consunta: Muccino nei suoi film “ci mette l’anima”.

A questo proposito mi ha colpito una riflessione del regista riguardo alla componente egolatrica insita nel suo mestiere.”Se fai l’artista non ti accontenti di appenderti il quadro nel tinello. Vuoi che venga visto. Una necessità che nasce dal pensare che la tua esperienza sia interessante anche per gli altri. Usi il tuo ego talmente a fondo che non ti basti più. (…) La voglia di essere giudicati e dire –esisto– è più forte di tutto il resto”.

Se gli ultimi due suoi film non avevano pienamente convinto, perché troppo forti, a detta di Muccino, le pressioni e intromissioni delle grandi case cinematografiche americane (interessate solo agli introiti), in questo si ravvisa una decisamente maggiore libertà di espressione del regista.

Qualche piccolo difetto ovviamente c’è: il film si sarebbe potuto concludere un quarto d’ora prima (la parte newyorkese risulta tutto sommato superflua, non aggiunge nulla a una storia già ricca di spunti). La recitazione di Brando Pacitto è a dir poco disdicevole.

Rimane inspiegabile il dissidio tra la critica, che ovviamente ha già provveduto a demolire il suo nuovo lavoro presentato alla mostra del cinema di Venezia, e il regista romano.

Muccino continua a sbancare i botteghini ad ogni suo film, lavora con star internazionali, all’estero è apprezzato e rispettato, corteggiato da attori e major tra i più importanti; in Italia, invece, rimane misconosciuto e incompreso da parte della critica; i suoi film etichettati come fatui e superficiali. Se è permessa una metafora politica, il successo di Muccino assomiglia a quello dei partiti populisti, di cui le elitè (i critici) non si capacitano, e che anzi osservano disgustate. Con la differenza, tutt’altro che insignificante, che Muccino è in assoluto uno dei migliori registi italiani. Con buona pace dei nostri critici.

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