Nel momento in cui mi sono seduto in una delle 60’000 poltroncine a disposizione degli spettatori di San Siro, ho capito subito che quello di Bruce sarebbe stato un concerto epico.
Bruce è un artista rock. Sembra uno come tanti ma non è così. E’ unico per il rapporto che ha con i fan, è unico per come comunica con i suoi testi, è unico perché parla alle persone di piccole cose, di fatti quotidiani, di problemi sociali e di soluzioni. Tutto questo senza politicizzare, o prendere posizioni: si parla di storie, di vita, di gente.
Ho avuto la fortuna di sedermi accanto a dei fan molto più accaniti di me, molto più anziani di me e con una cultura di musica infinita. Quando vado ad un concerto scambio sempre parole con chi ho vicino, sicuro che chiunque si trovi lì insieme a me condivide una passione ed è bello poterla toccare concretamente.
Il rapporto di Bruce con San Siro è unico. La prima volta ci suonò nel 1985, da semi-sconosciuto ma con l’aura del mito americano viva nei suoi blue jeans e nella sua maglietta smanicata. La signora che ho avuto accanto mi ha raccontato di quel concerto, al quale lei era presente, senza risparmiare una lacrima nel ricordare l’emozione che ha provato.
Degno di nota fu anche il concerto del 2003, famoso per la pioggia incessante che iniziò a cadere a metà concerto, con Bruce che non fece una piega, prendendo un cappello da cowboy dal pubblico ed intonando Waiting On A Sunny Day.
Più volte Springsteen in interviste e durante i concerti ha sempre sottolineato il suo amore per Milano e per San Siro, dove la musica ferma il tempo e lui diventa immortale.
Da questi ricordi ho capito che qualcosa di epico stava per accadere. Quindi pronti e via con Land Of Hopes And Dreams in apertura e poi un vasto repertorio di The River, dove ho toccato il paradiso con Sherry Darling ed Out In The Street.
One-two-three-four prima di ogni canzone e la folla che salta ed agita le braccia insieme al suo idolo, un idolo buono, sorridente, positivo, energico. Che non smette mai di suonare, che vuole dimostrare a tutti la sua determinazione, quasi ad indicare l’atteggiamento da tenere in questi anni socialmente ed economicamente bui.
Springsteen è un leader. La band lo segue, capisce i suoi tempi ed è pronto ad improvvise richieste dal pubblico. Bruce è sempre in mezzo alla gente: non c’è una canzone in cui non vada a stringere mani o farsi abbracciare, e quando un fan reclama Lucille di Little Richards da eseguire, lui non fa una piega, lo comunica alla band e via con il rock’n’roll.
Ascoltare la gente dunque, accontentarla, renderla felice, facendo capire a tutti che lo straordinario è possibile: Lucille non era mai stata eseguita prima nel tour, mai provata. E dov’è il problema? Cose mai viste…
Il concerto fila via liscio, con tanto Born In The USA e tanto Born To Run, scaldando gli animi ed emozionando con Jungleland e Dancing in The Dark, con la folla in delirio. Uno, due, tre bis, fin troppe canzoni, fin troppe emozioni, per poi chiudere da solo, con chitarra ed armonica intonando Thunder Road, a luci accese, a concerto finito, col cuore che batte e le lacrime che scendono.
Bruce è un’icona, un Boss, uno di noi, uno come tutti. Grazie.
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