Essere un giornalista significa riportare fatti ed eventi nella maniera più oggettiva e imparziale possibile. Essere un giornalista investigativo significa dover raccontare storie che non sempre hanno un lieto fine; significa riuscire a rimanere imparziali nonostante gli avvenimenti di quella vicenda siano al di fuori di ogni civile regola di comportamento e rispetto; significa riuscire a raccogliere il maggior numero di prove e testimoni che possano confermare una semplice supposizione; significa impegnarsi a fondo nel proprio lavoro così che una città, un paese, una nazione, perfino il mondo, possano venire a conoscenza di quello che è successo, perché niente venga nascosto sotto il tappeto.
Dopo aver visto Il caso Spotlight mi sono ricordata perché vorrei fare la giornalista: mi piacerebbe raccontare storie che portano le persone a riflettere su quello che le circonda, raccontare quello che c’è di marcio perché è giusto capire che non viviamo in un mondo di favole. Poi ho pensato a quali grandi inchieste sono state scritte negli ultimi anni qui in Italia, ma niente. A parte omicidi, scandali e varie buffonate di politici, sembra non sia successo nulla di eclatante in questo paese… nel film si dice che a volte per rendersi conto di qualcosa che non va “Ci vuole un outsider”. Per cui in attesa che arrivi qualcuno a farci aprire gli occhi limitiamoci alla recensione del film.
Bello. Non mi sorprende che abbia vinto l’Oscar come miglior film e un altro come miglior sceneggiatura non originale. Del resto anche la nostra redazione lo dava per vincitore. A renderlo tale sicuramente le performance degli attori: Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel McAdams e Brian d’Arcy James nei ruoli dei giornalisti investigativi che compongono il team Spotlight. Tutti molto intensi, concentrati e arrabbiati. Si riesce facilmente ad immedesimarsi e ad avvertire quanto fosse importante per questi giornalisti scoprire la verità. Accanto a loro anche Liev Schreiber, nei panni del neo direttore che spinge il team ad indagare sui fatti, e Stanley Tucci in quelli dell’avvocato difensore delle vittime.
Buona la regia di Tom McCarthy, che con le giuste inquadrature di primi piani e ambienti riesce a trasportare lo spettatore all’interno della scena.
Niente di sorprendente invece per quanto riguarda le musiche: non aiutano particolarmente a rendere le scene più emozionanti.
Ma quello che sicuramente lo rende un grande film è la storia. Come accennavo, Spotlight è un team di giornalisti investigativi che lavora per il Boston Globe. Guidati dal redattore Walter “Robby” Robinson i tre giornalisti Michael Rezendes, Sacha Pfeiffer e Matt Carroll, seguono per mesi la pista dei preti pedofili nelle diocesi di Boston, intenti a dimostrare che queste cosiddette “mele marce” in realtà sono circa il 6% dei preti della città; che più che un fenomeno sporadico è invece uno schema preciso; ma soprattutto che gli uomini che ricoprono cariche più importanti (in questo caso il Cardinale Law) sono a conoscenza di tutto e si limitano a spostare i soggetti recidivi e a insabbiare la faccenda, piuttosto che prendere provvedimenti. Una storia importante che in realtà non viene toccata fino in fondo, perché vero protagonista del film è il lavoro della squadra: le indagini, le interviste, le notti insonni, gli appunti scritti freneticamente su block notes o post-it, le telefonate con le fonti anonime, le pressioni dei colleghi e dell’opinione pubblica. Mi ha ricordato molto Tutti gli uomini del presidente, tralasciando il fatto che non avevo la costante paura che qualcuno venisse ucciso. Infondo era un’inchiesta su dei preti.
Un film che fa pensare, fa provare rabbia, schifo e anche impotenza. Non lo ritengo affatto un film anti-cattolico o che porta lo spettatore a perdere la propria fede, ma diciamo che fa diffidare sempre di più dall’istituzione. Infondo la fede è qualcosa di spirituale e legato all’animo umano. La Chiesa, in quanto istituzione, è composta da uomini e quindi temporanea.
Non è facile scrivere una recensione su una storia come questa evitando di prendere una posizione e dire esattamente cosa si pensa al riguardo. Difficile restare perfettamente imparziale, visto che dovrebbe essere ovvio ciò che è giusto e ciò che invece non lo è. Dovrebbe.
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