Il calcio di rigore. Il momento più drammatico e decisivo del calcio. Un tiro dal dischetto, che sia per decidere la finale dei mondiali o un torneo scolastico, racchiude emozioni uniche. Emozioni che solo chi si è trovato ad 11 metri dalla gloria eterna per averlo segnato o dal rammarico inconsolabile per l’errore, può capire. Si dice che non bisogna pensare a niente, o almeno provarci. Si sceglie dove tirare e ci si concentra solo su quello; non guardare il portiere che man mano diventa sembra più grande, trasformando la porta in quella porticina dove passa “Alice nel paese delle meraviglie”. Concentrato, si sente il fischio dell’arbitro e si calcia il pallone. Pochi secondi e si avrà la risposta: o si o no, non si scappa.
Ci sono dei momenti però in cui, anche non volendo, non si può evitare di pensare a cosa accadrà dopo quel rigore. Prendiamo ad esempio Fabio Grosso: pochi giorni prima ha deciso, con un tiro che non sa neanche lui da dove gli sia uscito, la semifinale contro la Germania. E adesso, il 9 luglio 2006, ha il pallone tra le mani che, se supera la linea di porta, fa impazzire di gioia un’intera nazione. Impossibile non pensarci.
In altri casi, dietro un rigore, non si nasconde solo la possibilità di regalare una grande gioia a milioni di persone, ma di regalarla prima di tutto a se stessi. La possibilità di cancellare la disperazione che ha invaso il cuore, l’opportunità di accendere una luce nella notte fonda che si è abbattuta nella propria vita. Sono pochi passi da una sfera di cuoio, ma in quelli, Eduardo Esidio, mette la propria esistenza.
Esidio è un attaccante brasiliano, tanto fisico e un discreto talento. Un giocatore più europeo che sudamericano, visto che le capacità atletiche hanno la meglio su quelle tecniche. A inizio anni novanta in tutta la nazione si parla molto bene di lui; ha segnato tanto a livello giovanile. Arrivano così gli interessi di molte squadre, ma coi “grandi” Esidio non rispetta le attese: cambia spesso maglia ma non riesce mai a trovare realmente la sua dimensione.
Nel 1997 accetta la proposta della squadra peruviana dell’Alcides Vigo, la squadra della polizia. E’ il migliore di una compagine decisamente mediocre, tanto da non riuscire a salvarsi ed a essere costretta alla retrocessione. Eduardo però si è messo in mostra, ha segnato una decina di gol e questo gli permette di avere finalmente una grande chance: lo chiama l’Universitario de Deportes, la grande “U”, uno dei club più importanti del Perù.
Qui Esidio si trova bene, si fa ben volere e segna tanto. In campo mette sempre tanto impegno e fuori non nega mai un sorriso a nessuno. Ha quella naturalezza che solo i Brasiliani, quando si sentono amati, sanno regalare. Oltre a giocare bene, è uno di quelli che “fanno spogliatoio”, come si dice in gergo. Dopo gli allenamenti coglie sempre l’occasione per divertirsi coi compagni, molto spesso tornando a casa alle prime luci del giorno. E molto spesso incontra gli operai che vanno a lavorare. Due facce di un continente in piena contraddizione con se stesso.
A metà del gennaio 1998 riceve una strana telefonata dalla società e dai medici, deve presentarsi con urgenza in sede. Il pensiero di Eduardo va subito al padre, da tempo malato di cancro, teme che possano esserci state delle complicazioni. La voce dall’altro lato della cornetta è preoccupata e seria. Ma perché proprio i medici, si chiede nel tragitto verso la sede del club.
E’ un dirigente a parlare: “Eduardo, devi tornartene in patria. Non puoi più stare da con noi. Non possiamo aggiungere altro. Sparisci. E’ meglio per te e per i tuoi compagni. Se sapessero, potrebbero morire di paura…”. L’incredulità la fa da padrona sul volto di Esidio. “State scherzando?”, chiede con un sorriso amaro. “No, non è uno scherzo. Vai, torna a casa. Capirai da solo ragazzo. Rifletti sulla tua vita e su quello che hai fatto, su cosa hai sbagliato. Non abbiamo altro da dirti. Buona fortuna, anzi: boa sorte, come dite voi.”
Il mondo gli crolla addosso. Presto tutto è chiaro: Eduardo ha contratto il virus dell’HIV. Torna a casa e ogni minuto sembra durare anni. Eduardo è perso, completamente. Il pensiero va a tutte quelle volte in cui non ha pensato alla conseguenze, in cui ha vissuto con leggerezza eccessiva. Al ritorno a casa, scopre che il padre è in netto peggioramento, non gli resta molto tempo. Per un attimo quelle analisi del sangue passano addirittura in secondo piano.
Tuttavia, come Tom Hanks in quel capolavoro di film che è Philadelphia, Eduardo non si arrende alla malattia. Non si arrende alla paura e ai pregiudizi degli altri. Deve esserci una soluzione. E infatti c’è: si chiama Daniel Stambulion ed è un medico argentino, che ha preso conoscenza del caso e vuole aiutarlo. Dopo qualche analisi, il referto parla chiaro: ” Un giocatore sieropositivo non è di nessun danno a compagni e avversari. Può, quindi, tranquillamente giocare.”
Eduardo vede una luce, corre dalla FiFa con il referto del medico. Non ci sono molte interpretazioni possibili, la grande “U” è costretta a reintegrarlo nella rosa. Torna in campo per la prima volta nel secondo tempo di una amichevole. Poche settimane dopo c’è la partita decisiva contro lo Sporting Cristal, partita che decide il campionato peruviano. Eduardo, al momento di entrare in campo, è accolto da un calorosissimo applauso da tutto lo stadio e dalle parole del difensore avversario: “Tranquillo, ti marcherò stretto e ti picchierò, come faccio sempre.” In quel momento Eduardo ha già vinto. Ha sconfitto la paura figlia dell’ignoranza.
Ma come spesso accade, il destino toglie tanto, ma sa anche ridare in abbondanza. Calcio di rigore decisivo per l’Universitario e la palla è tra le mani di Eduardo. Lo posa al centro del dischetto, fa qualche passo indietro e un grosso respiro. Eduardo sta rivedendo tutta la sua vita, sa benissimo che c’è mancato poco che nulla di tutto quello accadesse. Pochi secondi dopo sta correndo verso i suoi tifosi, mostra una maglietta con su scritto “Io amo Gesù” e ha la consapevolezza di aver vinto per sempre la sua partita. Al di là dei futuri successi sportivi o meno. Eduardo ha vinto contro l’odio e il rancore.
In un calcio di rigore, molto spesso, si cela tutta la vita.
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