E’ sempre la solita vecchia storia: Lui ama Lei ma Lei ama un altro.. o se non altro non Lui.
Il gruppo scultoreo di Apollo e Dafne, ad opera di Gian Lorenzo Bernini, prende vita dal racconto che li vede protagonisti ne “Le Metamorfosi” di Ovidio. Secondo il mito, Apollo dopo aver ucciso il serpente Pitone, vantatosi con Eros delle sue abilità nella caccia, viene colpito da quest’ultimo con una freccia dorata che fa nascere in lui una folle passione amorosa per la ninfa Dafne. Eros che in questo modo voleva punire la superbia di Apollo e dimostrare le sue doti nell’uso di arco e frecce, colpisce la stessa ninfa, Dafne, con una freccia dalla punta piombata che spinge la creatura dei boschi a rifiutare il divino amante.
L’opera scolpita tra il 1622 e il 1625 era stata commissionata all’artista dal Cardinal Scipione Borghese, nipote di Paolo V, per il quale lo scultore aveva già scolpito diverse opere (ad esempio il “David” e “Il ratto di Proserpina” ). Bernini, infatti, entra appena diciannovenne nel patronato artistico della famiglia Borghese, patronato che diventa per lui vero e proprio trampolino di lancio per la sua carriera.
L’artista, nato a Napoli il 7 dicembre 1598, figlio di uno scultore manierista toscano, sviluppò la sua arte in numerosi campi, fu infatti scultore, architetto, scenografo e persino scrittore di teatro, diventando in questo modo l’emblema di quell’arte barocca intesa come spettacolo totale, fusione creativa di diverse forme e tecniche. La divisione delle arti rigidamente dettata dalla letteratura artistica dell’epoca rinascimentale viene scardinata dai grandi artisti del Seicento che pongono in primo piano il capriccio e la fantasia, violando le regole della prospettiva e dando vita ad un espressionismo prima di allora intollerabile. Non stupisce dunque come il gruppo scultoreo di Apollo e Dafne nasca nella dimensione poetica, si sviluppi in una che unisce scultura, pittura ed architettura, per poi ispirare nuovamente poesia: ” l’ Alcyone” di Gabriele D’Annunzio.
<< (…) Il dio la chiama: “Dafne, Dafne!” Ed osa
ella aprir gli occhi: la rutila faccia
vede da presso e la bocca bramosa
mentre il dio con le due braccia l’allaccia.
Rapita dalla forza luminosa
gitta ella un grido che per la selvaggia
sponda ultimo risuona, e l’ode il padre. (…) >>
Bernini progetta l’opera decidendo di scolpire il momento della metamorfosi. Dafne destinata dalla freccia di Eros a respingere per sempre Apollo, non appena lo vede apparire comincia a fuggire nella radura finchè esamine non implora il padre, il fiume Peneo, di aiutarla trasformandola in un arbusto: l’Alloro, pianta che sarà prediletta dal dio Apollo che se ne cingerà il capo.
<< (…)Subitamente Dafne s’impaura:
le copre il volto e il seno un pallor verde.
Ella sembra cader, ma la giuntura
dei ginocchi riman dura ed inerte.
S’agita invano. L’atto della fuga
invan le torce il fianco. Si disperde
il senso di sua vita nella terra.
E l’amante deluso ancor la serra.
“Ahi lassa, Dafne, chi ti trasfigura?”(…) >>
Difficile non intravedere in questi versi il gruppo scultoreo del Bernini, l’artista ritrae, infatti, il dio Apollo nell’istante in cui contemporaneamente raggiunge e perde per sempre la sua amata. Diversamente da Ovidio e D’Annunzio, Bernini deve, con sapienza, scegliere una sola sequenza del mito da rappresentare, una sequenza evocativa e narrativa allo stesso tempo. Se la narrazione è intrinseca alla poesia, infatti, non vale altrettanto per la scultura, dove un istante viene congelato per sempre. E’ quindi compito dell’artista saper cogliere il momento adatto della narrazione che permetta allo spettatore di stimolare la fantasia e andare a porre in modo autonomo conclusione al racconto stesso.
Bernini riesce nell’impresa di catturare il fattore “tempo“ all’interno dell’opera non solo scegliendo di rappresentare un momento determinate nella storia, ma anche creando una sequenza narrativa che si evince girando intorno al complesso scultoreo. Muovendoci da sinistra verso destra osserviamo, infatti, i due amanti rincorrersi, la mano di Apollo sfiorare il ventre della ninfa quindi la metamorfosi prendere vita.
Quando utilizziamo il termine prendere vita non lo facciamo in modo distaccato o evocativo, davanti ai nostri occhi Bernini plasma il marmo in modo unico, trasformando la pietra nelle soffici membra di Dafne, e ancora, trasformando il suo grembo in dura corteccia.
I corpi dei due amanti, entrambi protagonisti indispensabili per l’equilibrio dell’opera stessa, sembrano, infatti, come vivi. L’intero gruppo appare pervaso da una forza dinamica determinata dalle posture instabili dei due e dalle linee di forza oblique e ascendenti disegnate dalla posizione enfatica delle membra.
Un vento quasi percepibile sulla nostra pelle muove il mantello di Apollo mentre Dafne, le cui labbra sono ancora dischiuse in una estrema preghiera salvifica, interrompe bruscamente la sua corsa. La metamorfosi che prede vita sotto i nostri occhi, infatti, le radica i piedi a terra lasciando che il corpo disegni un arco sinuoso nello spazio, arco che non può che richiamare alla mente il tema della contorsione proprio del Bernini.
E’ stupefacente, allora, osservare con quale studio e perizia il Bernini si accosti a quest’opera, attingendo da un lato alla statuaria classica, evidente è il riferimento all’Apollo del Belvedere, dall’altro all’espressionismo dell’estetica barocca.
Claire
IMMAGINI
(“Apollo e Dafne“, Gian Lorenzo Bernini, 1622-1925, marmo, h243cm, Roma, Galleria Borghese)
(“Apollo del Belvedere”, Leocare, copia romana, Roma Musei Vaticani)
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