Bukowsky disse: “Trova ciò che ami e lascia che ti uccida”. George Best: “Nella mia vita ho speso molti soldi in alcol, ragazze e belle macchine. Il resto l’ho sperperato”.
Sovrapponete la filosofia dei due aforismi e avrete il ritratto perfetto della sua vita, il resto è un elenco di date ed eventi. Best è vissuto e morto di quello che ha amato di più: l’eccesso. Fino a diventarne schiavo.
Nacque il 22 Maggio 1946, a Belfast. Irlandese, ma più che altro ubriacone (“cittadino del mondo” avrebbe sentenziato qualcuno). Il calcio cominciò a occuparsi di lui solo 15 anni dopo, nel frattempo trascorreva le giornate nei campi dietro casa ad allenarsi col pallone, il primo dei grandi amori della sua vita. Toccò a Bob Bishop, osservatore del Manchester United, scoprire il suo immenso talento mentre il ragazzino prodigio giocava nel Cregagh Boys Club. Ne rimase subito impressionato, non ebbe dubbi: “Ho trovato un genio” disse al patron dei Red Devils, Matt Busby; The Genius divenne presto uno dei suoi soprannomi.
Best bruciò le tappe e il 14 Settembre ’63 esordì (a 17 anni) contro il West Bromwich. Il salto fu molto rapido: “Quando sei ragazzino e usi la tua immaginazione, ti vedi far goal a Wembley con 100’000 tifosi che urlano il tuo nome. Non pensi a tutto ciò che ti toccherà prima di quel momento, tipo startene in un campo d’allenamento gelato con le ginocchia che tremano con davanti questi giganti che fino a poco prima conoscevi solo per nome” dichiarò nella autobiografia. Concluderà la prima stagione con 17 presenze (poche partendo da titolare) e 4 goal. Da lì la sua ascesa. La stagione seguente giocò 41 partite segnando 10 volte, il Manchester si laureò campione d’Inghilterra davanti al Leeds. Nel 1966 segnò una doppietta nei quarti di Coppa Campioni, contro il Benfica di Eusebio, partita storica per i 5 goal coi quali la squadra riuscì ad imporsi. Nello stesso anno trascinò il Manchester a un nuovo trionfo in campionato titolandosi miglior uomo assist del torneo con 17 passaggi decisivi. L’anno della svolta fu però il 1968: in Coppa Campioni, sempre contro il Benfica, stavolta in finale, scattò dietro la difesa molto avanzata, scartò il portiere e firmò il 4-1 finale; nello stesso anno aveva segnato 28 goal e fornito 11 assist, venendo premiato a fine stagione col Pallone d’Oro. Un fuoriclasse: lo sapeva anche lui, eccome: “Se fossi nato brutto non avreste mai sentito parlare di Pelè”.
La stella di Best aveva raggiunto il massimo splendore: “I giornali mi seguivano da tempo, ma la vittoria contro il Benfica mi fece fare un salto di qualità. Tutti sembrarono impazzire. Ebbi addirittura una mia rubrica personale sul Daily Express e la gente voleva sapere tutto su di me. Non solo quello che pensavo sul calcio, ma anche che vestiti portavo, che musica mi piaceva, quali locali frequentavo. All’improvviso tutto ciò che facevo era diventato -in-.” A suscitare tanta attenzione, è evidente, non c’era solo il talento: “Credo mi avessero notato perché ero diverso dagli altri giocatori. Le regole sono fatte per essere infrante e io le infrangevo tutte, non perché fossi un ribelle o stessi cercando di dimostrare qualcosa. Ero semplicemente fatto così, niente di più”. Divenne il mito assoluto dei ragazzi nell’anno che più di tutti rappresentò lo spirito della riscossa giovanile, nei sondaggi era consacrato come il vero idolo dei giovani, sopra i Rolling Stones e i Beatles. Per la pettinatura veniva spesso indicato proprio come “Il quinto Beatle” anche se giustamente molti commentavano che lui una come Yoko Ono non l’avrebbe manco guardata. Il mondo del calcio lo amò moltissimo e fu ricambiato con la stessa passione: “Avrei giocato sette giorni su sette se me l’avessero concesso. Quando scendevo in campo non avrei mai voluto sentire il fischio finale”. Purtroppo il pallone non fu il solo amore della sua vita. La sua tendenza agli eccessi era già evidente, l’alcolismo aveva già piantato i suoi semi, le ragazze gli saltavano addosso e lui non opponeva certo resistenza (“Nella vita alcune cose mi sono sfuggite: Miss Canada, per esempio”). I flirt famosi attribuiti a lui sono decine, addirittura 7 di questi con ragazze che avevano vinto il titolo di Miss Mondo.
Nel ‘70 il Manchester cambiò allenatore e in panchina si sedette Tommy Docherty, che mal sopportava la mancanza di disciplina di Best. Ma il genio riusciva ancora a far coesistere le sue due vite: mentre la squadra arrivava a metà classifica lui fu capocannoniere del campionato nel ’71 e nel ’72 (nel secondo caso anche miglior assist man). Il declino fu brevissimo. L’alcol e la bella vita lo logoravano, in campo diventò brevemente l’ombra di se stesso. Il Manchester (allenatore in primis) si stancò di inseguirlo e nel Gennaio ’74 guardò dalla panchina l’ultima sua partita all’Old Trafford. Aveva 27 anni.
Il resto della carriera è un calvario, prima di ritirarsi giocò, in ordine, con: Dunstable, Stockport, Corkceltic, Fulham, Los Angeles Aztecs, Fort Lauderdale, Hibernian, San Jose, Bournemouth, Brisbane Lions. Se ne andò dal calcio che conta (e poi, anni dopo, dalla vita) troppo presto, come spesso accade per le leggende. Fece in tempo a giocare negli Stati Uniti dove già allora venivano strapagate le stelle a fine carriera (Pelè, Beckenbauer…) e dove si dedicava poco al pallone e molto di più alla bottiglia. Abitava vicino al mare ma affermò: “Non sono mai stato in spiaggia, per arrivarci dovevo passare vicino a un bar e mi sono sempre fermato prima di raggiungere l’acqua.”
In alcuni articoli su Best si leggono idiozie come “Passò la vita a combattere la dipendenza dall’alcol”. Idiozie, appunto. Lui è stato l’opposto: un poeta maledetto, un peccatore deciso a trovare il suo Eden nell’inferno del vizio. Ce lo confermano la sua ironia (“Nel ’69 diedi un taglio a donne e alcol. Furono i 20 minuti peggiori della mia vita”) e la sua biografia: “Per quanto riguarda il bere, non è che avessi davvero intenzione di smettere. In effetti era più o meno il contrario. Invece che cercare la soluzione ai miei problemi di stomaco in una confezione di medicinali, la cercavo in una bottiglia di brandy”. L’alcolismo lo rapì consumandolo fino ad arrivare a livelli irrimediabili: “Il livello del Gamma GT, un enzima del fegato che dà l’indicazione più chiara dei danni che questo ha subito, diventa critico quando supera l’80. Il mio si aggirava attorno ai 900…”. Best aveva un figlio e si era sposato 2 volte. Anche la seconda moglie, dopo mille problemi, lo aveva lasciato, incapace come tutti di aiutarlo: “Niente mi avrebbe fermato, nemmeno quando Angie cominciò a nascondere le chiavi della macchina e tutti i nostri soldi. Se non li trovavo, uscivo a piedi e camminavo anche per undici o dodici chilometri per trovare un bar e se non avevo soldi in tasca mi sedevo e aspettavo finchè uno degli habitué non mi riconosceva e non mi offriva da bere. Diventai un vagabondo da spiaggia: c’erano delle notti in cui dormivo veramente sulla spiaggia.”
Il calcio è spesso la storia di una miseria arrivata all’Empireo; la stella di Best si sporcò nel fango delle sue schiavitù e tornò definitivamente in cielo perché non c’era alternativa, perché lui si era condannato a una fine precoce. Non gli mancarono le cure dei medici, dei tanti amici, dei parenti. Il trapianto di fegato nel 2002 servì solo a rimandare l’esito: la strada era segnata e sulla morte aveva sempre scherzato: “Il Paradiso? Mi annoierei, non penso di conoscere nessuno”. La morte arrivò il 25 Novembre 2005, dolorosa, ad espiare le colpe di una vita. I fan si recarono sotto il Cromwell Hospital, cantando un noto slogan “Maradona good, Pelè better, George BEST”, al suo funerale parteciparono leggende del calcio e capi di Stato. Fu seppellito vicino alla tomba della madre.
Prima di morire, volle che il suo amico e agente Phil Hughes lo fotografasse nelle condizioni peggiori e che le foto fossero pubblicate sul News of the World. Le immagini sono impressionanti, non le mostreremo perché le leggende vanno conservate nel mito. Il volto giallo, lo sguardo spento, gli occhi circondati da anelli rossi. Quel corpo che gli era servito per scattare sul campo, per godere delle donne, ora non gli serviva più a niente. L’amico prima di fotografare esitò; lui lo incoraggiò e sorrise, facendolo scoppiare in lacrime. Sotto le immagini fu pubblicata una frase: “Non morite come ho fatto io”. Una frase amara, che partiva però da una certezza: tanti, come ha fatto lui, avrebbero voluto vivere.
Commenti recenti