Le identità nazionali nell’era della globalizzazione
Parto dal titolo di una canzone di Daniele Silvestri: le cose che abbiamo in comune. Se ci pensiamo bene, sono tante le cose che ci accomunano su questo pianeta, in primis le necessità. Ci chiediamo che vestiti indosseremo oggi, cosa mangeremo, come impiegheremo il nostro tempo libero, dove finiremo quando tireremo le cuoia, etc… Abbiamo tutti gli stessi bisogni, certamente, ma non gli stessi rimedi per soddisfarli. Partendo dalle necessità, ogni popolo ha sviluppato modi differenti di vivere, ha fornito spiegazioni diverse per rispondere a domande comuni, ha riempito la propria valigia sociale di tradizioni, lingue e costumi che ne hanno plasmato l’identità. Ci ritroviamo fra le mani un mondo meraviglioso ricco di differenze che contraddistinguono ogni gente.
In questo stesso mondo però, oggi ammetto di avere paura. Paura che tutto ciò vada perduto nel nome di una pseudo cultura global-western-american che diffonde modelli a cui non sappiamo resistere. Modelli estetici, gastronomici, lavorativi, culturali, linguistici, canoni su canoni che condizionano la nostra vita più di quello che possiamo immaginare. La diffusione di un unico modello forse favorisce l’incontro fra persone che provengono da luoghi differenti ma siamo sicuri che ciò favorisca anche lo scambio fra culture differenti? Dove sono le differenze in un mondo dove tutti facciamo le stesse cose, dove parliamo e ci vestiamo allo stesso modo, ascoltiamo la stessa musica e aspiriamo a fare gli stessi lavori?
Siamo convinti che internazionalizzare significhi omologare e appiattire le difformità quando in realtà sono proprio queste che rendono possibile l’incontro fra culture.
Sembrerò cattivo ma ammetto di essere contento quando sento dire che compagnie come Starbucks, Sainsbury o Burger King fanno fatica a prendere piede in Italia. Non perché abbia particolari risentimenti nei confronti di queste aziende ma perché significa che ci sono ancora alcune cose che non siamo disposti a barattare per essere alla moda o per apparire internazionali, specie quando ci sentiamo attaccati al cuore della nostra identità, come ad esempio nell’enogastronomia.
Il ruolo dello Stato, delle organizzazioni internazionali e degli stessi cittadini a tal proposito è di vitale importanza. Proteggere e incentivare la trasmissione delle tradizioni locali non presenta solo una forte dimensione emotiva ma anche ricadute economiche da non sottovalutare, poiché è soprattutto la tradizione a stimolare il viaggiatore. A tutti noi è invece richiesto uno sforzo: quello di essere curiosi dell’altro, del diverso. Ci viene richiesto di capire e di non imporre la nostra visione delle cose.
Per concludere, mi terrorizza l’idea di un cibo dove tutto è burger, di una musica dove tutto è pop o di una lingua dove tutto è English o Globish, di un cinema dove tutto è 3D, di un lavoro dove tutto è very demanding o di una comicità dove tutto è lol e meme. E’ bello invece riscoprire quelle piccole cose che rendono un popolo diverso da un altro, quei costumi che ognuno di noi si porta dietro anche quando è in giro per il mondo.
Starbucks sarà anche un brand vincente ma il bar sotto casa credo che racconti davvero chi siamo.
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