Si potrebbero riempire lunghi saggi per descrivere la complessa genialità dimostrata da Eco nel suo primo romanzo Il Nome Della Rosa, ma non potendo permettermi che qualche riga (davvero troppo poco) cercherò qui di condensare i due punti chiave che tutti riscontrano, anche solo dopo aver tenuto in mano questo libro per pochi minuti, e sui quali tutti si interrogano ancora a distanza di anni: la tematica del labirinto e il vero significato del titolo.
Procediamo con ordine.
Il romanzo è senza dubbio un giallo, anche se al suo interno trovano spazio anche sezioni dedicate ad altri generi, quali il romanzo storico o la gothic novel. In numerose occasioni l’autore decide di inserire, seguendo lo schema della quaestio medievale, dispute teologiche in grado di impegnare per intere pagine i personaggi, protagonisti compresi, e i lettori. Certo, il lettore non è per forza obbligato ad interessarsene e a seguirle. Dopotutto, come dice Pennac nel suo Come un romanzo, al quale ho dedicato un articolo tempo addietro, due dei diritti di un lettore sono quello di non leggere e quello di saltare le pagine. Tuttavia, queste dispute racchiudono al loro interno un concetto che si ritrova costantemente in tutto il romanzo: l’elenco, di obiezioni (videtur quod), di soluzioni (sed contra), di trattazioni (respondeo) e di diverse risoluzioni a ciascuna delle obiezioni (ad primum, ad secundum e così via).
Troviamo elenchi ovunque nelle pagine stese da Eco: gli anni passati del monaco deforme Salvatore sono descritti tramite un elenco di quasi due pagine, per esempio; ma non dobbiamo dimenticare che, in realtà, l’intero romanzo non è altro che un lunghissima enumerazione di fatti avvenuti nell’arco di sette giorni.
Caratteristica di queste sequenze è, come possiamo ben intendere, la loro lunghezza: dalle due pagine riservate a Salvatore alle più di cinquecento dello scritto di Adso. La loro capacità di essere infiniti, tema trattato dallo stesso Eco in La vertigine della lista, può essere tendenziosa. Per questo l’infinità degli indizi che si scoprono ad ogni pagina non fa altro che inasprire le problematiche insorte cercando di risolvere il mistero da cui l’abbazia è avvolta, creando un caos nel quale diventa difficile orientarsi.
Non c’è dunque immagine che meglio rappresenti quest’idea se non quella del labirinto:
“[…] capisci come il labirinto sia capace di confondere chiunque lo percorra, già agitato da un senso di colpa. D’altra parte pensa a come eravamo disperati noi ieri sera quando non riuscivamo più a trovare la strada. Il massimo di confusione raggiunto con il massimo di ordine: mi pare un calcolo sublime. I costruttori della biblioteca erano dei gran maestri.”
La stessa ordinata complessità si può quasi ritrovare nella stesura stessa del romanzo: si tratta di un racconto il cui nucleo narrativo è avvolto da più di una cornice.
Salta all’occhio, innanzitutto, un Prologo a cui segue una prefazione intitolata Naturalmente, un manoscritto a cui non corrisponde alcun capitolo finale. Questo è il motivo per cui, in alcuni testi, questa viene posta prima del prologo che trova, invece, ripresa in un Epilogo che, con la sua ultima frase chiarisce il titolo del romanzo stesso, lasciandolo comunque aperto a interpretazioni diverse, possibili e spesso coesistenti.
“Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”
L’autore stesso afferma che inizialmente l’opera era nata come L’Abbazia del delitto, nonostante, in realtà, il suo sogno fosse stato quello di intitolarla Adso da Melk. Queste idee vennero scartate per il poco apprezzamento degli editori nei confronti dei semplici nomi propri (persino Fermo e Lucia, scrive Eco, è stato riciclato in altra forma) e per il volere dell’autore che il lettore non si focalizzasse unicamente sulla trama poliziesca.
La rosa, alla quale troviamo alcuni richiami nel corso del racconto, è una figura simbolica così densa di significati che finisce per non averne più nessuno: rosa mistica? Rosa come simbolo dell’amore? O della caducità?
“Il lettore ne risulta giunstamente depistato, non può scegliere una interpretazione; e anche se avesse colto le possibili letture nominaliste del verso finale ci arriva appunto alla fine, quando già ha fatto chissà quali altre scelte.”
La rosa del titolo, seguendo la seconda metà del verso conclusivo (nomina nuda tenemus) è dunque un nome senza oggetto: quand’anche la rosa appassisse e sfiorisse, ne rimarrebbe sempre il nome. Questa prospettiva viene completamente ribaltata quando l’autore fa riferimento alla ragazza di cui Adso si innamora – capitolo che sicuramente rimanda la mente del lettore ad una interpretazione amorosa del fiore – in quanto ella rimane senza nome e non viene dunque elevata a persona.
“Un titolo deve confondere le idee, non irreggimentarle.”
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